I funerali, come le vittorie – o forse più delle vittorie, testimoniamo dei legami che fondano un gruppo umano.
Vicenza, 12 dicembre 2020. Nella tarda mattinata si tengono i funerali di Paolo Rossi. Sono gli ex compagni del Mondiale di Spagna ‘82 a portare in spalla il feretro nel Duomo di Vicenza. In testa, Marco Tardelli e Antonio Cabrini, poi Giancarlo Antognoni, Fulvio Collovati, Alessandro Altobelli e Franco Causio, Gabriele Oriali, Giuseppe Dossena, Daniele Massaro, Beppe Bergomi, Franco Baresi e Giovanni Galli.
Nel duomo l’orazione civile la tiene Antonio Cabrini. Parla per i presenti ma anche per gli assenti: Gaetano Scirea e soprattutto Enzo Bearzot, ultima espressione di un calcio silenzioso. Ci tornerò più avanti.
Quando pensiamo al campionato del mondo di calcio 1982, quello di Paolo “Pablito” Rossi capocannoniere, pensiamo ai 90 minuti della sera dell’11 luglio 1982: Italia Germania 3-1. Ma non solo: quella serata e la sua appendice il giorno dopo sono fatte di molti volti e molti gesti “oltre il protocollo”: l’esultanza di Sandro Pertini in tribuna (ma anche Juan Carlos, re di Spagna, tra l’incredulo e lo stranito guardando un capo di Stato di 86 anni sbracciarsi come un tifoso qualunque); Helmut Schmidt, Cancelliere della Rft, in silenzio, come a chiedersi “che ci faccio qui?”; Henry Kissinger e Gianni Agnelli, con l’appendice del viaggio di ritorno della nazionale campione del mondo nell’aereo presidenziale, giocando a scopa con il Presidente della Repubblica (Pertini-Zoff contro Bearzot-Cabrini).
Eppure non era cominciata così. Le premesse avrebbero fatto pensare a un epilogo diverso.
Lo sguardo era portato a pensare che quel torneo si sarebbe chiuso con un vincente sud-americano, Argentina o Brasile. l’Argentina di Maradona e il Brasile di Falcao, Serginho, Socrates.
E invece… ecco una cronaca del modo in cui andarono le cose.
Nella prima qualificazione l’Italia supera il turno con tre pareggi: 1-1 - con Polonia, Perù e Camerun.
L’Italia passa al secondo turno solo grazie alla migliore differenza reti sul Camerun.
Il campionato inizia solo a questo punto ad assumere un nuovo volto, anche se nessuno scommette sul futuro.
Ma soprattutto la convocazione di Paolo Rossi, voluta a tutti costi e contro il parere di tutti da Enzo Bearzot divide la quadra dal suo pubblico. A ripercorre quei giorni non si trova un’opinione – né sulla stampa, né tra i tifosi - a favore della scelta di Bearzot. Detto e scritto oggi sembra incredibile, ma la realtà nel giugno 1982 era proprio questa: nessuno voleva Paolo Rossi in nazionale. Quella scelta era valutata come un capriccio del «vecio» (come tutti chiamavano il CT della Nazionale).
La diffidenza nei confronti di Pablito continua nel secondo turno dove, nella prima partita, l’Italia vince contro l’Argentina per 2 a 0 (gol di Tardelli e di Cabrini, con Paolo Rossi che continua a fare papere)
Poi il Brasile, dove improvvisamente Rossi si sblocca: tre gol, portando in vantaggio la squadra e obbligando un Brasile, per il quale sarebbe sufficiente il pareggio per passare il turno, a rincorrere la nazionale italiana.
Sul 2-2 basterebbe amministrare il risultato e passare in semifinale, ma i giallo-oro non si possono accontentare di una vittoria ai punti. Attaccano e lasciano scoperto il fronte.
Dove, di nuovo, si infila Paolo Rossi. È finita. 3 a 2.
Allora, qualcosa comincia a cambiare.
Quella squadra su cui si erano accese le polemiche (non ultime quelle sui compensi per il passaggio dal primo al secondo turno) improvvisamente, per molti, cambia pelle e volto: da «loro» ora diventa «noi».
Lì si consuma un passaggio che ha molti segni, anche ambigui, o ancora incerti.
Provo a riassumerli muovendo da un libro di Francesco de Core, vicedirettore del “Corriere dello Sport - Stadio”, Mondiali 1982. La rivincita, che ricostruisce, passo dopo passo, il trionfo degli azzurri, dalle fatiche e gli sberleffi di Vigo agli abbaglianti trionfi di Barcellona contro Argentina e Brasile, fino al successo sulla Polonia in semifinale e allo struggente ultimo attimo a Madrid, contro la Germania Ovest, per l’allegria del presidente Sandro Pertini e di tutto un popolo.
Ma quella vittoria portava soprattutto la firma, indelebile, di Enzo Bearzot, l’allenatore che si prese sulle spalle tutte le fatiche e tutte le sofferenze per poi lasciare ai suoi ragazzi la scena, l’applauso, il delirio.
In quella scena che forse aveva anche i tratti profondi di un’identità friulana fatta di poche parole c’erano molte cose. C’era il senso della profonda identità collettiva di un gruppo, il senso di un impegno dove ognuno ha qualcosa da riscattare, ma poi conta il gruppo, appunto (qualcosa che il cinema solo pochi mesi prima di quel campionato, era riuscito a raccontare e a far vedere con Momenti di gloria). Infine, c’era la chiusura di un lungo ciclo storico in cui sventolare il tricolore aveva voluto dire glorificare il regime.
Cambiamo scena per un istante: Parigi. 1938. Da qui conviene, forse, prendere le mosse.
Quando nel 1938 la nazionale italiana a Parigi vince il suo secondo campionato del mondo guidata dall’ex alpino (e fascista convinto) Vittorio Pozzo e si fa paladina della rappresentazione del carattere dell’Italia fascista, il problema della partecipazione e del sostegno alla nazionale italiana non ha risparmiato quel pezzo di mondo politico italiano che si trova rifugiato in Francia e a quell’antico territorio di libertà deve la possibilità di esprimere la sua opinione. Lo scontro, del resto, si era consumato nei quarti di finale contro la Francia, il 12 giugno 1938. La squadra scende in campo, all’ascolto dell’inno nazionale (all’epoca la Marcia di Casa Savoia) fa il saluto fascista; è in svantaggio al decimo minuto del primo tempo e poi travolge la Francia per 3 a 1 con una doppietta di Silvio Piola (1913 – 1996) – l’attaccante più prolifico con 364 reti, e il miglior marcatore della Serie A con 274 gol. Un confronto che assume i toni del faccia a faccia dittatura/democrazia. Vince la dittatura.
In quella partita il mondo del fuoriuscitismo antifascista misura la propria lacerazione e - per certi aspetti - la propria solitudine, di fronte alla realtà di un regime all’apice del consenso che riesce a comunicare la propria forza. Improvvisamente, il calcio diventa un rito, una delle tante forme in cui prende corpo e si manifesta la religione politica dell’identificazione con la nazione. È la prima volta che questo accade.
Ci sono altri momenti nella storia della nazionale di calcio e dei campionati del mondo dove questo verrà fuori. È, per esempio, l’Italia della sconfitta con la Corea del Nord di Pak Doo Ik ai campionati del 1966 in Inghilterra, che coinciderà col termine della parabola sportiva dell’allenatore Edmondo Fabbri (1921 – 1995) e di Giacomo Bulgarelli (1940 – 2009), forse il giocatore che si sacrifica di più, con una gamba che non funziona, e allo stesso tempo il capro espiatorio - come capita in tutti i riti religiosi dove qualcuno è ucciso perché si compia il riconoscimento collettivo - di una nazionale che non riesce a superare le qualificazioni.
È per certi aspetti ancora un mondo sospeso fra il riconoscimento delle qualità individuali e la contestazione o il mugugno dei tifosi.
Il senso di identità col collettivo della squadra mostra ancora i tratti arcaici dell’adesione al clan.
Un mondo - come intuirà Giovanni Arpino alcuni anni dopo in Azzurro tenebra, il romanzo del calcio sullo sfondo del naufragio della nazionale ai mondiali di calcio in Germania nel 1974 dopo l’ubriacatura di Messico ’70 – che registra il passaggio da un calcio in cui ancora conta la dimensione del ludus, del gesto spettacolare individuale, al neocalcio, come lo chiamano i sociologi dello sport, una dimensione in cui ciò che accade in campo è solo un segmento di una battaglia e di un confronto che tendono a fare del calcio una variante del wrestling. Nel cosmo che Arpino descrive in quel libro il “vecio” è Bearzot, ed è fuori da quella logica.
Un passaggio che non è solo nella fisicità dei giocatori – ormai una pratica di scontro e di combattimento non più adatta agli “abatini” come Gianni Brera chiamava Bulgarelli, Sandro Mazzola e Gianni Rivera, figure centrali del calcio italiano degli anni ’60 - ma è soprattutto costruzione del team.
Il mondo del calcio non è solamente più il luogo del gioco, ma quello della costruzione del consenso.
Ne darà una prima immagine il volto di Alberto Sordi (ancora una volta icona del carattere nazionale, come ha ricordato la studiosa Silvana Patriarca nel suo Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza) in un film che molti hanno letto come un prodotto minore (Il Presidente del Borgorosso football club, di Luigi Filippo d’Amico), ma che per molti tratti anticipa la macchina del primo Milan di Silvio Berlusconi.
Al centro non c’è più la costruzione del gioco, ma la definizione del sacerdote e del suo rito. Contano non già ciò che si fa, ma ciò che si dice fuori per governare dentro. Fondamentale diviene il governo dello spogliatoio e la comunicazione verso l’esterno. L’aveva capito nel 1973 Tommaso Maestrelli, il trainer che aveva governato la Lazio di Chinaglia e di Wilson.
Per certi aspetti Spagna 1982 è questo, ma è anche il suo contrario.
A fare la differenza è appunto il “fattore Bearzot”, l’effetto virtuoso di uno che non elogia sé stesso ma mette al centro i suoi giocatori, riconoscendo loro il primato di “fare la vittoria”, di non mollare quando la strada è in salita, di avere il senso della misura. Poi il “vecio” si ritira. Il calcio prende altre strade.
Ma il gruppo resta.
È il caso di nominare tutti, uno per uno.
Dino Zoff, Giuseppe Bergomi, Antonio Cabrini, Claudio Gentile, Fulvio Collovati, Gaetano Scirea, Bruno Conti, Marco Tardelli, Paolo Rossi, Gabriele Oriali, Francesco Graziani, Ivano Bordon, Franco Baresi, Pietro Vierchowod, Giampiero Marini, Franco Causio, Daniele Massaro, Franco Selvaggi, Alessandro Altobelli, Giancarlo Antognoni, Giuseppe Dossena, Giovanni Galli
Di
| Feltrinelli, 2022Di
| Feltrinelli, 2014Di
| Mondadori, 2019Di
| Mondadori, 2021Di
| Baldini + Castoldi, 2022Di
| Garzanti, 2022Gli altri approfondimenti
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