Spero che questo libro venga letto. Non so se avverrà, è sicuramente molto atipico, forse la gente non avrà voglia di farsi disturbare le coscienze
Apriamo subito con una grande banalità, con qualcosa di tristemente scontato: ci manca. Manca la sua voce, la sua visione, il coraggio delle idee.
Idee che sino all’ultimo ha portato avanti senza risparmiarsi.
Per ricordarci di lui, oltre alla incredibile eredità che ha lasciato con Emergency – l’associazione umanitaria diventata punto di riferimento mondiale -, restano le parole scritte che ha pubblicato negli anni.
Pochi a dire il vero i suoi libri, ma intensi e importanti e purtroppo sempre attuali.
L'Europa, o almeno qualche paese europeo, deve sganciarsi da una politica che ormai mette le guerre nel palinsesto televisivo perché altrimenti, come dice Chomsky, si rischia di porre fine all'esperimento umano
Così ci spiegava in una intervista - nel febbraio del 1999 all’uscita del suo primo libro -, il significato del titolo Pappagalli verdi che fu un successo di vendite (a lungo in classifica) e di contributi a Emergency: i diritti d’autore andarono totalmente all’associazione umanitaria fondata nel 1994 da lui stesso, due amici e sua moglie Teresa Sarti, anima e Presidente di Emergency sino alla prematura scomparsa.
"Pappagalli verdi" è il modo in cui i vecchi afgani chiamavano, e chiamano ancora, le mine giocattolo, dotate di una forma in realtà forse più simile alle farfalle. Mine giocattolo che venivano lanciate a migliaia sui villaggi dagli elicotteri. Gli abitanti vedevano scendere questi strani uccelli (hanno proprio due ali e un corpo centrale) che volteggiavano e si posavano sui campi o fuori dalle porte di casa e poi venivano raccolti dai bambini, i veri destinatari di queste armi barbare. Queste mine sono fatte proprio per mutilare i bambini, nessun adulto raccoglierebbe mai un oggetto del genere in un paese in guerra. L'effetto di queste armi è provocare l'amputazione delle mani o delle braccia e spesso la cecità perché l'oggetto esplode in genere all'altezza del torace.
E così ci descriveva questo testo tanto antieroico quanto drammatico, scagliandosi esplicitamente contro certa retorica degli "aiuti umanitari", insistendo invece molto sulla visione della sua attività come un "mestiere".
Credo che quello degli aiuti umanitari debba essere un mestiere, un lavoro, ho scritto "come fare il panettiere"... Uno dei grandi problemi è la professionalità: spesso si vedono persone che occupano posizioni di un certo rilievo nel panorama degli aiuti umanitari e non hanno nessun background, non sanno da che parte cominciare a fare quello che devono fare, e infatti non lo fanno... Questo si traduce in un grande spreco di energie, di soldi, in un grande danno per i potenziali beneficiari. Bisogna portare professionalità perché non si possono esportare prodotti di bassa qualità. Se tentassimo di esportare scarpe pessime negli Stati Uniti, non ne venderemmo nemmeno un paio: la stessa cosa deve avvenire in questo campo, anzi ancora di più. Ciò che si esporta deve essere di alta qualità, vista soprattutto la componente etica dell'intervento. Bisogna anche togliere un po' di retorica, di liturgia, da questi argomenti: "è una missione, non un lavoro...", ma cosa significa in questo caso il concetto di missione?
Nuovo successo di vendite e soprattutto di lettori per il successivo saggio Buskashì. Viaggio dentro la guerra del 2002. Un importante contributo per una presa di coscienza collettiva sulla realtà e sul dramma del conflitto armato. Racconti sul campo e riflessioni che purtroppo valgono in ogni contesto bellico.
Ecco di nuovo le sue parole – che ci mettono ancora oggi all’angolo – in un’altra intervista rilasciata a ridosso dell’uscita del libro.
Il titolo del mio ultimo libro è "Buskashì": sono passato dai pappagalli alle capre con le teste mozzate... Buskashì è un gioco afgano. A una capra vengono tagliata la testa e legate le zampe, poi messa in un campo e due squadre di cavalieri se la contendono. Ovviamente non ci sono regole. È un gioco molto violento che si fa con cavalli robusti e forti. Questo gioco mi ha sempre ricordato l'Afghanistan in cui molti cavalieri, molti stati si sono affrontati: l'Unione Sovietica prima, il Pakistan, l'Arabia Saudita, l'Iran; l'ultima squadra che è scesa in campo è stata quella degli Stati Uniti. E tutti stanno giocando per il controllo di quel paese, per le risorse che ha, per la possibilità di far passare gasdotti o oleodotti da quella che oggi è la più grande riserva energetica del mondo, cioè le repubbliche dell'Asia centrale. C'è poi un problema di controllo strategico dell'Afghanistan: non dimentichiamo che il paese confina con le ex repubbliche dell'Unione Sovietica e con la Cina. E così si gioca la partita finanziando e armando di volta in volta una fazione o un gruppo terroristico: e chi è la capra? Il popolo afgano che è stato letteralmente fatto a pezzi con due milioni di morti, quattro di rifugiati, un milione di mutilati. I sopravvissuti vivono in maniera disperata, tutto in una popolazione complessiva di 20 milioni. Di questa catastrofe non è mai importato nulla a nessuno.
Ci stiamo avvicinando a giorni in cui la retorica metterà in ombra quello che è il dato di fondo: chi è il vero responsabile di queste tragedie, a chi servono? In quanti secondi ormai siamo in grado di liquidare decine di morti e centinaia di feriti e di parlare d'altro? Questo, secondo me, è il nocciolo del problema.
Invece bisogna continuare a riflettere sui morti e sui feriti perché sono l'unico dato vero della guerra. Non vedo il fascino di continuare a elucubrare su quale regime sostituirà quello precedente o su chi sarà il vincitore di turno; quello che mi sembra importante è invece che si cominci a pensare, a confrontarci per vedere se tutto quello che abbiamo dato per scontato sull'argomento non sia suscettibile di revisione e non si riesca a disegnare alternative possibili. Perché esistono, sono praticabili, sperimentabili: credo che Emergency nel suo piccolo lo abbia dimostrato.
"Buskashì" è il racconto del viaggio fatto per ritornare precipitosamente in Afghanistan (che avevo lasciato per due settimane di vacanza) all'indomani dell'11 settembre e quindi è la testimonianza di quello che abbiamo visto con i nostri occhi, cioè di come si giudica e di come si vive la guerra se si sta non con quelli che sono a quarantamila miglia di distanza, ma con quelli che vivono "dentro la guerra" e che vedono la loro casa e la loro famiglia polverizzate in un secondo.
Non è un racconto di fiction, è un libro duro, ma è ora di cominciare a parlare chiaramente perché sono convinto che, se i cittadini di questo paese discutono tra loro, scoprono cose che pensavano perse, dimenticate.
Siamo, senza neanche rendercene conto, a qualche passo dal baratro
In questi mesi, in cui il tema della guerra è tornato prepotentemente alla ribalta, riguardandoci più da vicino, colpendo nei confini europei e quindi rendendoci più sensibili, le parole di Strada possono aiutarci a riflettere, senza retorica ma con obiettività, sul senso, anzi, sull’insensatezza della guerra come risposta ai problemi, sull’uso politico e strumentale che ne viene fatto, sulla necessità di una rivoluzione etica dal basso che riparta dai diritti delle persone e dalla nonviolenza, nella speranza che l’Italia diventi un paese “esportatore di pace”.
Al di là degli aspetti etici, ideologici e religiosi per essere contro la guerra, ce n'è un altro importante: è uno strumento che non funziona perché colpisce sempre il bersaglio sbagliato. Credo che su questo ci siano pochi dubbi: la politica internazionale è determinata da chi tenderà sempre e solo ad arricchirsi e non esiterà a massacrare chiunque pur di farlo. Bisogna che i cittadini trovino il modo per fermare loro la mano, un modo non violento per non riproporre le stesse logiche. Questa è la grande sfida, la sfida del decennio.
Siamo, senza neanche rendercene conto, a qualche passo dal baratro.
Questo è un grande impegno per cominciare a riflettere su quali principi riteniamo debbano sorreggere il nostro stare insieme. E qui vengo al problema dei diritti perché la carta di riferimento fondamentale, che ho deciso di pubblicare alla fine del libro, è la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo: una carta scritta all'indomani di un immenso macello, ossia la Seconda guerra mondiale e non a caso è stata firmata nel dicembre del 1948. Ha rappresentato il tentativo di mettersi d'accordo su alcune regole, su obiettivi e cose da realizzare perché quel grande macello non si ripresentasse. Non c'è nella Dichiarazione universale, esplicitamente, il diritto alla pace che credo essere in realtà il fondamento di ogni diritto. Credo però che la preoccupazione del suo mantenimento sia profondamente dentro questa dichiarazione, esplicitata anche nel preambolo, ma non c'è un paese che l'abbia applicata integramente, pur avendola sottoscritta. Oggi è tempo di cominciare a parlare col vicino di casa, cercare di far capire che bisogna ricominciare a confermare quei principi, a rielaborarli, a produrne altri, per esempio il diritto all'acqua che oggi è il problema fondamentale in molte parti del mondo. Dobbiamo riscrivere le regole e i principi sui quali pensiamo di fissare la nostra convivenza civile in un mondo che garantisca tutti. Perché questo è il problema: è insopportabile sentir parlare di diritti umani persone che li intendono solo come doveri altrui e non come diritti di ciascuno, che spacciano per diritti quelli che sono i loro privilegi, dai quali sono esclusi i tre quarti dell'umanità.
Credo che il nostro Paese sia però ancora sano ed è molto importante che l'Italia diventi un paese esportatore di cultura di pace. L'Europa, o almeno qualche paese europeo, deve sganciarsi da una politica che ormai mette le guerre nel palinsesto televisivo perché altrimenti, come dice Chomsky, si rischia di porre fine all'esperimento umano. In Italia il tessuto sociale è molto forte, molto attento e credo che si potranno creare occasioni di incontro per parlare.
Di
| Feltrinelli, 2022Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Feltrinelli, 2013Di
| Feltrinelli, 2015Di
| Rizzoli, 2017Di
| Mondadori, 2022Di
| Feltrinelli, 2020Di
| Libreria Pienogiorno, 2021Gli altri approfondimenti
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