Lolita, il film di Stanley Kubrick, del 1962, viene celebrato per i suoi sessant’anni. Il fatto è un paradosso che va interpretato, per molte ragioni. Il primo è un’anomalia moderna: il cinema è più importante della letteratura, perché “Lolita”, romanzo di Nabokov, è del 1955. Dunque sarebbe stato legittimo celebrare la primogenitura, cioè la carta. Ma tant’è il cinema prevale impietosamente. Un altro paradosso è proprio Vladimir Nabokov, scrittore… (?): il punto di domanda è riferito alla sua nazionalità. È davvero impossibile attribuire a Nabokov una nazionalità. È un artista del mondo e mai definizione è stata più appropriata. Non solo, ma anche la sua radice è straordinaria, e anche in questo caso “fuori dall’ordinario” è un concetto perfetto.
Nacque nel 1899, a San Pietroburgo, da famiglia nobile. Nel ’17 essere nobile in Russia non era… opportuno, così Vladimir dovette emigrare. Fu prima in Inghilterra, dove studiò a Cambridge – come poteva mancare un cliché del genere – poi passò in Francia e poi in Germania. Non era difficile in quel tempo, per un russo ex-nobile, inserirsi in Europa, che brulicava di esiliati dal sangue blu o dal cospicuo censo. Imparò perfettamente tutte quelle lingue e scrisse libri che, all’inizio, giravano soprattutto negli ambienti dei rifugiati. Nel ’40 approdò negli Stati Uniti e alla fine della guerra assunse quella cittadinanza. Dunque, se proprio è tassativo dargli una nazionalità, forse a prevalere, è quella americana.
Come spesso succede a uno “straniero”, Nabokov era ormai perfetto per poter scrivere dell’America. La sua esperienza universale lo metteva nella condizione di leggere e capire quella cultura come nessun altro. Quando si dice Nabokov, in automatico si dice “Lolita”, grazie naturalmente al film di Kubrick, ma lo scrittore… nato a San Pietroburgo –definiamolo anche così – aveva scritto altri libri, importanti e critici, magari abrasivi verso l’America. Naturalmente il “russo” nutrì sempre un sentimento positivo verso il Paese che lo aveva accolto, ma non poté fare a meno di rilevarne le patologie che non emergevano in superficie. Che allo scrittore interessassero i giovani lo dimostrano romanzi come Fuoco pallido. Teatro del racconto sono i college, così organizzati superficialmente, magari perfetti, in realtà collettori sotterranei di violenze e turbe. Un altro codice decisivo è il sesso, un’altra delle ossessioni americane. Dunque sindromi che poi emergeranno in Lolita, appunto.
Successivamente, Nabokov spingerà la sua ricerca fino alla manifestazione “estrema” dell’incesto. Ma il caposaldo rimane Lolita. Tanto importante e incidente da aver creato un lemma. Tutti sappiamo cosa significa attribuire a un’adolescente l’appellativo, adesso magari un po’ in disuso, di "Lolita". L’anziano Humbert si innamora della quattordicenne Lolita. Diventa per lui una vera ossessione, appunto, e pur di starle vicino e sedurla ne sposa la madre che muore quasi subito in un incidente. Così la ragazza e il patrigno vivono la relazione in un road attraverso l’America, da un motel all’altro. Poi la ragazza se ne va con uno scrittore impotente e pervertito. Humbert lo rintraccia e lo uccide. Il film fece scandalo e divenne, allora, primi anni sessanta, un modello di depravazione che certo giovò al botteghino. Come spesso accade il film si rivelò un assist irresistibile anche per il libro. La fama internazionale Nabokov la dovette alla pellicola più che alla carta.
Dopo trentasei anni rileggo Lolita di Vladimir Nabokov, che ora Adelphi ripresenta... Trentasei anni sono moltissimi per un libro. Ma Lolita ha, come allora, un'abbagliante grandezza. Che respiro. Che forza romanzesca. Che potere verbale. Che scintillante alterigia. Che gioco sovrano. Come accade sempre ai grandi libri, Lolita si è spostato nel mio ricordo. Non mi ero accorto che possedesse una così straordinaria suggestione mitica. (Pietro Citati)
Sue Lyon, la protagonista, rimase ostaggio di quel ruolo fino a quando l’età glielo permise. John Huston la inserì nel suo “La notte dell’iguana”, un ruolo vicino a quello di Lolita. Peter Sellers si distinse e si concesse un salto di popolarità interpretando il ruolo dello scrittore depravato. Nel ’97 Adrian Lyne rifece “Lolita”. La protagonista era Dominique Swain, con un certo appeal ma senza l’inquietudine di Sue. Nel film di Lyne Geremy Irons sostituì James Mason nel ruolo di Humbert. Ma ormai era impossibile scalzare il primo modello. E comunque il remake non era all’altezza dell’originale. Del resto non era semplice fare meglio di Kubrick. “Lolita” fa comunque parte della grande memoria della letteratura e del cinema. La chimica fra le due discipline consente di considerare il libro&film come un unicum. E non accade spesso. La celebrazione ci sta.
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