Nella primavera del 1963 usciva nelle sale Il Gattopardo per la firma di Luchino Visconti. Opera di enorme qualità figlia del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa pubblicato nel 1958. A questo titolo appartiene un dato che è forse un unicum. La sua paternità può essere equamente divisa fra lo scrittore e il regista.
Nel maggio 1860 dopo lo sbarco di Garibaldi a Marsala, Don Fabrizio assiste con distacco e con malinconia alla fine dell'aristocrazia siciliana e all’ascesa di una nuova classe sociale destinata a prendere in mano le redini del potere.
Un unicum perché la letteratura prevale sempre. Alcuni titoli esemplari, romanzi diventati film più volte: I promessi sposi evoca Manzoni, Anna Karenina, Tolstoj, I miserabili, Hugo, L’Ulisse, Joyce, Addio alle armi, Hemingway, Il grande Gatsby, Fitzgerald, Il signore degli anelli, Tolkien. I registi, molti, arrivano dopo.
Poi c’è Il Gattopardo, appunto, l’eccezione, perché il romanzo di Tomasi Lampedusa era perfetto per essere assunto da Visconti. Va detto che il nobile milanese aveva un rispetto sacrale per la letteratura e che aveva affrontato tutte quelle prevalenti: l’americana con Ossessione, da Il postino suona sempre due volte di James Cain, la francese con Lo straniero (Camus), la russa con Le notti bianche (Dostoevskij) e la tedesca con La morte a Venezia (Mann). E poi gli italiani, con La terra trema dai Malavoglia di Verga, L’innocente da D’Annunzio. E poi, Il Gattopardo.
A posteriori, come sempre accade, si innescano le cosiddette revisioni, riletture, omissioni, e si impone, purtroppo, la politica. Si racconta dell’intervento di personaggi importanti del Partito comunista di allora, che avrebbero suggerito, magari cercato di imporre, al regista certi contenuti graditi a Mosca.
Il modello che aveva confuso le idee era Fabrizio Salina, un principe che accetta il nuovo status della Sicilia che diventerà parte del regno d’Italia, con un nuovo re, un Savoia, al posto di un Borbone. Dunque un principe “rivoluzionario”. Non ortodosso, incomprensibile, rispetto all’ideologia marxista. Visconti, parzialmente, stette al gioco. Così tagliò una sequenza decisamente politica.
Accentrato quasi interamente intorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio Salina, il romanzo, lirico e critico insieme, ben poco concede all'intreccio e al romanzesco tanto cari alla narrativa dell'Ottocento.
Il protagonista è don Calogero Sedara, un ricco, furbo possidente che intuisce quanto sia meglio stare dalla parte dei nuovi venuti, a cominciare da Garibaldi. Dice a un contadino: «Se uno non possiede niente non può votare». Contadino: «Se questo asino fosse mio potrei votare». Sedara: «Invece è del padrone, è lui che vota». Contadino: «Allora, se ho capito bene, è l’asino che vota... io non so leggere né scrivere, il nuovo re non mi interessa, mi interessa la terra». Sedara: «Abbiamo fatto la rivoluzione, adesso faremo le nuove leggi e avrete la terra, ma l’avrete perché l’avete aspettata, non come quelli di Girgenti che l’hanno occupata con la forza e marciscono in galera. Anche il principe di Salina, che è un gentiluomo, voterà sì per l’Italia».
È utile anche un focus sulla situazione della cultura italiana ai tempi del Gattopardo. Aveva preso vita un movimento, il cosiddetto Gruppo 63, di cui facevano parte personaggi di levatura delle lettere e della cultura, fra questi Achille Bonito Oliva, Furio Colombo, Umberto Eco, Giorgio Manganelli, Edoardo Sanguineti. Il movimento faceva propria l’ideologia marxista, le storie dovevano essere, tutte, in quella chiave.
In questa ottica di lettura e revisione risultava, per esempio, che il Risorgimento (secondo Il Gattopardo) fosse un’occasione mancata di rivoluzione. Poi naturalmente c’erano le letture contrapposte. E come quasi sempre accade, a fronte di due spinte opposte, il “corpo” finiva per rimanere immobile. In questo clima è chiaro che Visconti dovesse fare molte valutazioni. Ma la narrazione possedeva già una base granitica grazie a Tomasi di Lampedusa e… a Visconti. E non era davvero semplice cercare di non fare di quel titolo un capolavoro, che compie ora sessant’anni e a confronto del quale il cinema attuale... non ne esce bene.
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