Con Un eroe (al cinema dal 3 gennaio), uno tra i registi iraniani più celebrati torna a raccontare una storia sull’Iran. Non soltanto geograficamente e produttivamente, ma soprattutto dal punto di vista morale. Asghar Farhadi, due volte premio Oscar e un nome di primo piano ormai da un decennio grazie al successo di Una separazione nel 2011, ha in questi anni esteso le sue ambizioni creative al mercato internazionale (Il passato e Tutti lo sanno) con risultati altalenanti. Un eroe segnala però un ritorno, non solo al suo paese e alla sua gente ma a quella che ormai è una raccolta di opere morali da apprezzare in sequenza all’interno della sua filmografia.
Un uomo in difficoltà che esce di prigione in congedo. Un debito da pagare e delle monete d’oro trovate per strada. Una fidanzata e un figlio che attendono un ritorno. E a legare il tutto, una dignità individuale da costruire, difendere e se necessario inventare. Il film, come del resto il suo protagonista, ha un aspetto desueto e modesto ma al tempo stesso è cesellato in punta di penna in modo da creare le premesse per esplorare un paradosso della società: in questo il realismo da strada di Farhadi (già di per sé un costrutto, visto che il regista deve fare i conti con la censura in patria e può descrivere solo una certa versione della realtà) si piega, si adatta ai contorni della parabola e diventa uno spunto per il commento sociale.
La particolare tipologia di melodramma in cui opera Farhadi nasconde profondità vertiginose perché quello che è spesso un dilemma spinoso, ma in superficie abbastanza chiaro, viene reso kafkiano e labirintico dai tentativi di risolverlo. Fino a che il giusto e lo sbagliato non perdono di senso come punti cardinali su una bussola rotta.
Nel caso di Un eroe, la dimensione morale è quella della comunità e della sua percezione di se stessa, attraverso i media e il racconto popolare. Benché sia un film che inizia in una prigione, l’ordine pubblico e la legge non sono la presenza più ostica sul cammino di Rahim come lo erano invece di fatto in Una separazione, film costruito sul campo e controcampo tra le complesse sfumature della vita dei protagonisti e il loro gelido riflesso nello specchio della legge.
Rahim (interpretato da Amir Jadidi con un sorriso stoicamente performativo stampato sul volto) deve invece assistere alla disintegrazione del concetto di buona azione - un processo distruttivo da lui stesso avviato quando cerca in rapida successione di appropriarsi delle monete d’oro e poi di restituirle per guadagnarne in reputazione. Una buona azione è in fondo tale solo negli occhi di chi guarda, e in Un eroe chi guarda è a sua volta coinvolto in un desolante gioco a somma zero: creditori pure loro indebitati, superiori e impiegati impiccioni, media locali che finiscono per guidare la vicenda invece di raccontarla. E poi, ovviamente, i social media, strumento supremo di tutte le realtà travisate.
Farhadi dosa e pesa le ragioni di ciascuno per rendere l’equazione etica di Un eroe del tutto irrisolvibile, in una parabola “dei giorni nostri” che sembra anche, pur nei suoi risvolti digitali, senza tempo. Intrisa delle complessità della società iraniana, riporta a un’idea di comunità in cui la statura morale è quantificata dal parere di chi ci sta attorno, in un perpetuo tribunale del villaggio che di eroi, alla fin fine, farebbe meglio a non aver bisogno.
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