I soldati parlottarono tra di loro per un bel po’; alla fine raggiunsero un accordo. Il sergente Kulis mi fece alzare in piedi, mi puntò un dito sul petto e disse. “Uldis Kurzemnieks”. Mi ordinò di ripeterlo, ma trovavo difficile pronunciarlo. A ogni tentativo i soldati scoppiavano a ridere e si davano grandi pacche sulle spalle. Questo mi mise a mio agio: cominciai a gironzolare attorno al fuoco, canticchiando quelle parole. Fu così che diventai Uldis Kurzemnieks. Alex Kurzem Alex Kurzem Alex Kurzem
Non si esce indenni dalla lettura di Il bambino senza nome di Mark Kurzem. Perché il passato, non solo è una terra straniera, ma è anche abitato da mostri che - si ha un bel daffare a tirare su ponti levatoi, sbarrare ingressi - trovano sempre una feritoia da cui uscire e riapparire come incubi nel presente. Nel 1995 Alex Kurzem ha sessant’anni (almeno, pensa di avere sessant’anni, perché gli è stata attribuita una data di nascita, proprio come gli è stato attribuito un nome) e ha sempre taciuto sul suo passato avvolto dalla nebbia dei ricordi imprecisi e della volontà di rimozione. Ora, all’improvviso, lascia Melbourne inventando una scusa per la moglie e appare sulla porta di casa del figlio Mark, a Oxford. Stringendo tra le mani la valigetta che Mark e i suoi fratelli gli hanno sempre visto custodire gelosamente, senza che nessuno di loro potesse mai sbirciarci dentro.
La storia de Il bambino senza nome è raccontata da due narratori - padre e figlio. Il padre racconta ed è la sua voce che prevale anche se filtrata attraverso la narrazione del figlio che fa domande, aggiunge e poi riferisce delle sue ricerche, una volta che inizia una vera e propria indagine per colmare le lacune dei ricordi del padre o per accertarne la veridicità. È un narratore inaffidabile, il padre, perché è passato così tanto tempo e perché lui era solo un bambino quando accaddero i fatti che ora racconta. Tutto era iniziato la sera in cui sua madre aveva detto, “Domani saremo tutti morti”. Ma lui - come si chiamava allora? non lo sa, non lo ricorda proprio - si era alzato ed era uscito di casa nella notte, era salito sulla collina e da lì, la mattina seguente, aveva visto. Uno spettacolo di orrore per chiunque, immaginarsi per un bambino di - forse - cinque anni. Aveva solo capito che doveva fuggire e nascondersi. Nella foresta, dormendo sugli alberi di notte. Finché qualcuno lo aveva trovato, lo aveva consegnato a una squadra di soldati lettoni e lui era sfuggito una seconda volta alla morte, riuscendo ad impietosire chi doveva sparargli chiedendo un pezzo di pane prima di morire. Da questo momento incomincia la vita ‘costruita’ su misura per lui, proprio come le divise - fatte della sua taglia - che gli fanno indossare per trasformarlo nella mascotte dei soldati.
Gli vengono dati un nome, Uldis Kurzemnieks, e una data di nascita; gli si dice che è russo; gli si insegna a ripetere la storia (alterata) del suo ritrovamento; viene perfino modificata la data in cui fu salvato - il perché sarà chiaro alla fine, quando tutte, o quasi, le tessere del puzzle andranno al loro posto.
Ho detto che non si esce indenni dalla lettura di questo libro. Perché non solo vi ritroviamo le descrizioni delle carneficine compiute dai nazisti, ma a questi crimini se ne aggiungono altri, che non grondano sangue ma che sono più sottilmente crudeli. Che non annientano la vita ma la manipolano, che non distruggono ma rubano l’identità di un individuo, privando della sua eredità culturale lui e i suoi figli e i figli dei figli. Non possiamo non essere pervasi pure noi dall’angoscia duplice dell’uomo che si domanda chi sia (o chi fosse prima di diventare quello che è ora) e se debba giudicarsi colpevole per quello che ha fatto, che gli hanno fatto fare, che non sa se ha fatto. Un bambino di sei, sette, otto anni, distingue tra bene e male? E, se un bambino è (lo diceva Rousseau) per sua natura buono e innocente, quanto maggiormente colpevole è chi lo mette sulla strada del male? Avrebbe dovuto, lui, avrebbe potuto sottrarsi, fare qualcosa di diverso da quello che ha fatto?
Ma non è solo il padre a tormentarsi: una volta che ha fatto del figlio il suo confidente, quando ha affidato a lui gli scavi nel passato, anche Mark è assillato da incertezze, da dubbi, da angosce. Perché ridando a suo padre la sua vera identità, anche la sua viene alterata. E mai viaggio è stato più di questo, letteralmente, viaggio di ricerca di sé, nello smarrimento (ancora in senso letterale, prima che metaforico) della direzione giusta, sulla traccia delle due uniche parole che Alex Kurzem ricorda dalla sua infanzia (Koidanov e Panok), giungendo alla fine là dove tutto è iniziato.
La voce di Mark Kurzem ci ricorda quella di Daniel Mendelsohn nello splendido libro Gli scomparsi (Ed. Neri Pozza)- per il motivo che entrambi gli scrittori ricalcano le orme, in un certo senso simili, di un passato che ha determinato la distruzione di un mondo e piangono quello che è andato perso. In vite umane, in retaggio, in cultura, in possibilità di essere.
Mark Kurzem - Il bambino senza nome
Titolo originale: The Mascot
Traduzione di Franca Genta Bonelli
446 pag., € 19,00 - Piemme (Storia d'Europa)
L'autore |
25 marzo 2009 | Di Marilia Piccone |
Mark ha da poco iniziato la sua vita da ricercatore a Oxford quando suo padre Alex bussa alla sua porta con un angoscioso segreto da confessare. I brandelli di quel segreto sono rinchiusi in una logora valigia che custodisce i ricordi evanescenti e ossessionanti che per quasi settant'anni suo padre ha cercato di seppellire nell'oblio. Tocca a Mark ora aiutare suo padre a ricostruire la sua storia, l'epopea di un bambino bielorusso ebreo di cinque anni che è scampato avventurosamente allo sterminio della sua famiglia e del suo villaggio, ha vagato per nove mesi da solo nei boschi, tra la neve e i lupi, è stato catturato da un'unità lettone filonazista, è stato portato davanti al plotone di esecuzione e lì, le spalle contro il muro della scuola, ha rivolto al sottoufficiale che stava per premere il grilletto una strana, perfetta domanda da bambino: "Puoi darmi un pezzo di pane, prima di spararmi?". È stata quella strana domanda a salvargli la vita. Le SS che decidono di prendere quel bambino dai capelli biondissimi e dagli occhi cerulei come loro mascotte, per farne un modello di soldato bambino da utilizzare per la propaganda. Le giornate trascorse a lustrare scarpe. Ora vuole ricordare Alex, ritrovare le sue radici, la sua famiglia, il suo passato, vuole sapere tutto, anche il suo nome, perché quello con cui è cresciuto, si è sposato, ha generato tre figli, Alex Kurzem, non è che il nome falso che gli diedero su un foglio di via.
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