Per un momento il cielo azzurro collassò; seguì un’inerte immobilità in cui nessuno dei due sapeva cosa fare, lui che le andava incontro, lei ferma che strizzava gli occhi, poi lui la raggiunse e si abbracciarono. Ifemelu gli diede una o due pacche sulla schiena, tanto per dare l’idea di un abbraccio tra vecchi amici, un abbraccio platonico e sicuro, ma lui la tirò leggermente a sé e la trattenne appena più del dovuto, come per dirle che non voleva fare l’amico.
Ifemelu e Obinze.
Nomi dal suono strano, per noi: ma nomi che ricorderemo benissimo molto prima di aver terminato la lettura di “Americanah”, terzo romanzo della scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie.
Così come ricorderemo i due personaggi, amanti divisi dall’emigrazione e poi riuniti a Lagos, in Nigeria.
Perché Ifemelu e Obinze, entrambi di etnia igbo, sono brillanti, intelligenti, sensibili, onesti verso se stessi e gli altri.
Appartengono alla categoria di emigranti colti che abbandonano il loro paese non per fame e neppure per motivi politici, ma per sfuggire all’immobilismo, all’assoluta mancanza di scelte.
Ifemelu otterrà il visto per gli Stati Uniti, dove già abita sua zia, mentre Obinze andrà in Inghilterra.
Ifemelu, dopo esperienze negative e degradanti, riuscirà ad avere una borsa di studio per Princeton.
Obinze, una volta scaduto il visto, si adatterà a fare vari lavori con documenti falsi, cercherà di contrarre un falso matrimonio per avere la cittadinanza, ma sarà forzatamente rimpatriato dopo un periodo in prigione, come un criminale.
“Americanah” - è così, prolungando la sillaba finale, strascicandola, che i nigeriani di ritorno in patria pronunciano la parola, con aria di sufficienza e superiorità - inizia nel salone di una parrucchiera.
Ci vogliono sei ore per farsi fare le treccine che tengono in ordine i capelli crespi delle donne nere e Ifemelu ritorna col pensiero al passato, a quello più lontano, quando abitava con i genitori in Nigeria, quando si era innamorata di Obinze (erano ancora studenti di liceo), e a quello più recente, i tredici anni che ha ormai passato in America - l’amore per un bianco molto ricco che la fa sentire speciale e quello per un professore universitario nero.
I suoi ricordi si intrecciano - con abilità straordinaria - a quelli di Obinze che ha vissuto in Inghilterra un’esperienza ben più dura di quella di Ifemelu e poi, ritornato a Lagos, si è costruito una carriera fulminea come imprenditore, si è sposato, ha avuto una bambina.
Quello che ci cattura, in “Americanah”, non è solo la storia di un amore che dura negli anni, pur soffocato da altre esigenze, pur tradito con altre unioni.
È la capacità della scrittrice di dare un significato più profondo a tutto quello che narra, di inserire la storia d’amore in un discorso fine sulla razza e sul razzismo, sul significato nascosto perfino nel linguaggio, sull’assoluta mancanza di consapevolezza, da parte dei bianchi, di come tutto - la pubblicità, i modelli femminili proposti dai media, i prodotti di bellezza - sia discriminatorio e finanche offensivo nei confronti della popolazione di colore.
Ifemelu tiene un blog di ‘osservazioni sui Neri Americani (un tempo conosciuti come ‘negri’) da parte di un Nero Non-Americano’ ed è questa una seconda narrazione che si inserisce nella prima.
Sentiamo la voce di Chimamanda Adichie dietro quella di Ifemelu, ci pare di capire che molte delle esperienze che racconta siano state le sue, che il confronto fra bianchi (troppo spesso condiscendenti e ignari di quanto siano offensivi), afroamericani che discendono dagli schiavi e americani-africani che si sono resi conto di essere neri e perciò diversi (inferiori, diciamolo pure) soltanto al loro arrivo negli Stati Uniti, appartenga al vissuto della scrittrice stessa.
Quando Ifemelu smette di imitare l’accento americano, quando si riappropria della sua capigliatura naturale e non lotta più con liscianti che le bruciano la cute (come fa Michelle Obama? sarebbe ugualmente bene accetta se avesse un’acconciatura afro?), è pronta per ritornare in Nigeria, con la sicurezza di una Green Card e di un visto sempre valido.
Nigeria, America per Ifemelu e Inghilterra per Obinze, Nigeria di nuovo. Passato lontano, passato vicino, presente: è questa la struttura su cui si regge il romanzo, che offre uno sguardo lucido sulla realtà sia nigeriana sia americana, senza camuffare la corruzione e l’inerzia dello stato africano ma neppure ammirare incondizionatamente il modello americano.
Anzi, a volte pare quasi che il confronto - soprattutto dal punto di vista umano - sia a sfavore dell’America.
Ed è bello e commovente leggere dell’entusiasmo, dell’esaltazione, dell’orgoglio che il successo di Barack Obama ha suscitato sia nei neri americani sia nei neri non americani.
Questo è un libro che è ‘dentro’ le cose, un libro che risveglia le nostre coscienze appassionandoci ad una storia d’amore.
Recensione di Marilia Piccone
Chimamanda Ngozi Adichie - Americanah
trad. A. Sirotti, 428 p., 21 euro - Einaudi
ISBN 9788806201012
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