Mappa dell'assedio di Leningrado
Su un lato del pollaio c’era una porta sghemba e il gancio della serratura era aperto. Kolja bussò piano. Nessuna risposta.
“Permesso? Non sparate! Ehm, volevamo solo fare quattro chiacchiere… C’è qualcuno? E va bene, allora apro la porta. Se la ritenete una pessima idea e pensate di sparare, ditelo subito”.
L'intervista a David Benioff
Può un romanzo che parla di guerra, di assedio, di fame e di morti, essere divertente? Ebbene sì, se l’autore è lo scrittore americano David Benioff, già autore de La venticinquesima ora, libro diventato un film di culto con la regia di Spike Lee. Perché c’è una verve ne La città dei ladri che ha qualcosa di un fuoco pirotecnico, una brillantezza di trovate che smorzano la drammaticità degli eventi, una coppia di personaggi - infine o prima di tutto - che amiamo dalla prima all’ultima pagina. E ci dispiace proprio da morire quando, alla fine, uno di loro muore: ci sentiamo traditi - e no, questa Kolja non ce la doveva proprio fare, di abbandonare noi e Lev in questa maniera.
“Mio nonno uccise due tedeschi a coltellate prima di compiere diciotto anni”: le trecento pagine del romanzo raccontano di questo, dopo un capitolo iniziale in cui l’autore spiega come, ad un certo punto della sua vita da adulto, abbia voluto chiedere al nonno di parlargli di Leningrado, e della sua altra vita in un paese lontano in un tempo lontano. E così è il nonno che parla in prima persona, rivolgendosi al nipote e autorizzandolo ad inventare i dettagli che mancano perché lui li ha scordati: è successo tutto tanto tempo fa. In quella prima settimana del gennaio del 1942, quando lui uccise i due tedeschi, conobbe e perse un grande amico e si innamorò della nonna. C’è materiale a sufficienza per un grandioso - e scoppiettante - romanzo di formazione.
L’assedio di Leningrado era iniziato nell’estate, alla fine del 1941 la città era già alla fame, dopo il bombardamento dei magazzini Badajev dove si tenevano le scorte alimentari. E avrebbe resistito per 900 giorni, in condizioni incredibili. Lev Beniov non ha voluto abbandonare la città, come hanno fatto la madre e la sorellina. Viene portato nelle famigerate prigioni delle Croci, perché sorpreso a derubare un paracadutista tedesco, piombato a terra morto per assideramento. E nella sua cella viene sbattuto dentro un soldato ventenne accusato di diserzione- lui dice di essersi allontanato dal battaglione per discutere la sua tesi di letteratura, su un tal Ushakovo, uno scrittore del livello dei grandi romanzieri russi. Lev non ne ha mai sentito parlare? È un ignorante, le scuole non insegnano proprio niente. Fatto sta che Lev e Kolja, il ladro e il disertore, non vengono fucilati, anzi, avranno salva la vita purché…purché procurino, entro il giovedì seguente, una dozzina di uova per la torta nuziale della figlia del colonnello. Cinque giorni di tempo per trovare quello che a Leningrado è introvabile, cosicché i due decideranno di cercare le uova là dove certamente ci sono - dai tedeschi, oltre le linee dell’assedio.
Le straordinarie esperienze di questa avventura erano già iniziate a Piter (il nomignolo affettuoso che i due danno alla loro città), quando erano incappati nel macellaio cannibale e poi nel triste pollaio sul tetto. Ma poi, affondando nella neve, con Kolja che non fa che parlare e volge tutto in riso, si erano imbattuti nel soldato morto conficcato come un palo nella neve, nei cani con le mine anticarro sulla schiena, nella casupola con le quattro ragazze obbligate a compiacere ai nazisti, e infine nella banda di partigiani con l’eccezionale cecchino che era una studentessa di Archangelsk con i capelli rossi. Sparatorie e sgozzamenti, rappresaglie e tipiche selezioni naziste - il tutto finirà con una partita a scacchi, giocata tra Lev e il terribile e temuto ufficiale dell’ Einsatzgruppe. Se Lev vince, avrà anche le uova .
Che Lev riesca a tirare fuori il famoso coltello rubato al paracadutista e passare all’azione, è merito dei giorni trascorsi con Kolja, tra frecciate al suo nasone da ebreo, lezioni di sesso, citazioni letterarie, glorificazioni dell’eroe del romanzo di Ushakovo (alias Kolja stesso), conteggio dei giorni passati senza cagare - un personaggio con un’allegria, una forza vitale, una lealtà, un’audacia senza paragoni.
La fine della storia del nonno avviene tre anni dopo, quando il cecchino di un tempo (che ora indossa un abitino a fiori e porta i capelli rossi sciolti sulle spalle) bussa alla porta di Lev. Ed è una fine da romanzo sentimentale, del tipo ‘e vissero felici e contenti’. Una lettura irresistibile.
Le prime pagine
Mio nonno uccise due tedeschi a coltellate prima di compiere diciott'anni. Nessuno, a quanto ricordo, me l'ha mai raccontato: era una cosa che mi sembrava di conoscere da sempre, così come sapevo che gli Yankees indossavano la maglia a righine in casa e quella grigia in trasferta. Ma non era scienza infusa. Chi l'aveva tramandato? Non certo mio padre, che era una tomba, e tantomeno mia madre, che detestava parlare di cose ripugnanti, come il cancro, le deformità o i fattacci di sangue. Mia nonna, no: conosceva tutte le fiabe del suo paese natale (quasi sempre truculente: bambini divorati dai lupi o decapitati dalle streghe) ma non aveva mai parlato della guerra in mia presenza. E certo non lui, mio nonno, il placido custode dei miei primi ricordi, quell'omino tranquillo dagli occhioni neri che mi teneva la mano attraversando la strada, che se ne stava seduto su una panchina a leggere un giornale russo mentre io rincorrevo i piccioni e molestavo le formichine con un rametto.
Sono cresciuto a due isolati di distanza dai miei nonni e li vedevo praticamente ogni giorno. Avevano una piccola compagnia di assicurazioni, ricavata nel loro appartamento di Bay Ridge, appena sopra la ferrovia, che si rivolgeva soprattutto agli immigrati russi come loro. Mia nonna stava sempre al telefono a vendere polizze. Nessuno riusciva a resisterle. O li affascinava o li spaventava, in ogni caso compravano. Mio nonno gestiva gli affari, occupandosi delle scartoffie. Quand'ero piccolo mi faceva sedere sulle ginocchia, dove fissavo il moncherino del suo indice sinistro, tondo e levigato: le prime due falangi erano state amputate così di netto che sembrava gli mancassero dalla nascita. Se era estate e giocavano gli Yankees, la radiolina (dopo il suo settantesimo compleanno un televisore a colori che gli aveva regalato mio papa) trasmetteva la partita. Mio nonno non ha mai perso l'accento, non ha mai votato alle elezioni o ascoltato musica americana, ma è diventato un tifoso sfegatato degli Yankees.
Verso la fine degli anni Novanta una conglomerata assicurativa ha fatto un'offerta per la loro piccola compagnia. Era, a detta di tutti, un'ottima offerta, perciò mia nonna ha chiesto il doppio della cifra. Dev'essere seguita una trattativa feroce (avrei potuto suggerire subito alla conglomerata che trattare con mia nonna era una perdita di tempo) e alla fine hanno sganciato quello che aveva chiesto. I miei nonni, secondo tradizione, si sono trasferiti in Florida dopo aver venduto anche l'appartamento.
Hanno comprato una casetta sulla costa del Golfo, un capolavoro dal tetto piatto costruito nel 1949 da un architetto che, non fosse affogato quello stesso anno, sarebbe diventato famoso. Austera e maestosa, in acciaio e cemento, appollaiata su una scogliera desolata sopra il golfo, non è la casa che uno si aspetterebbe per una coppietta in pensione, ma quei due non si sono trasferiti a sud per avvizzire al sole e morire. Quasi tutti i giorni mio nonno si mette al computer e gioca a scacchi in rete con i vecchi amici. Dopo qualche settimana, stufa di stare con le mani in mano, mia nonna si è trovata un lavoro in una piccola università di Sarasota, dove insegna letteratura russa ad alunni abbronzati che sembrano (almeno l'unica volta che sono andato a trovarla in classe) intimoriti dalla sua irriverenza, dal suo pesante sarcasmo e dalla sua ferrea memoria dei versi di Puskin.
© 2008, Neri Pozza
La città dei ladri – David Benioff
309 pag., 17,00 € – Edizioni I Neri Pozza 2008 (I narratori delle tavole)
ISBN 978-88-54-50295-6L'autore
23 ottobre 2008 | Di Marilia Piccone |
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