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Diceria dell'untore: il romanzo di Bufalino di nuovo in scena con Luigi Lo Cascio


Nell’attuale clima celebrativo del Risorgimento italiano, parlare di “untori” richiama subito una manzoniana memoria e ci getta in atmosfere seicentesche di città invase da peste, monatti, fetore. Invece con il romanzo di Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, siamo nel secondo dopoguerra a Palermo. Felicemente trasposto in teatro nel 2009 con l'adattamento e la regia di Vincenzo Pirrotta e la straordinaria interpretazione di Luigi Lo Cascio, lo spettacolo sarà messo in scena allo Stabile di Napoli dal 1 al 12 dicembre.

Il libro


Ero solo nel mondo, senza nemmeno la mazza ferrata del guardiano notturno, il cui casalingo rumore m'incoraggiava nelle insonnie dell'infanzia. E la città pareva in guerra contro di me, tutta catrami e cavi e pietre, un pugno di spine dure. Come m'avrebbero accolto, essa e il mondo, me con la mia sporcizia invisibile? Era un nastrino, il tatuaggio che portavo nel petto, o il segno d'un'empietà da coprire col velo nero? Io avevo compiuto un viaggio, un viaggio importante, ma ora era difficile capire se fra gli angeli o sottoterra; e se ne riportavo un bottino di fuoco o solo un poco di cenere sotto grigi bendaggi di mummia.

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Quello di Gesualdo Bufalino è sicuramente un esordio sui generis. È del 1981, quando l’autore aveva già sessantuno anni, la sua opera prima Diceria dell’untore (riedito da Sellerio nel 2009), con cui si aggiudica il Premio Campiello. Uno splendido romanzo, a lungo meditato, scritto in una lingua colta e raffinata, fortemente evocativa, con riferimenti alla grande tradizione letteraria e cinematografica internazionale. Pensato e abbozzato fin dal ’50, fu composto lungo l’arco degli anni Settanta. Nato da un’esperienza autobiografica in un sanatorio palermitano negli anni del dopoguerra, Diceria dell’untore si presenta nella forma di lungo monologo del protagonista, un giovane reduce di guerra. ""Diceria"" è, secondo il dizionario ottocentesco Tommaseo-Bellini, un ""discorso per lo più non breve, detto di viva voce; poi anche scritto e stampato"", ma anche ""qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, sia con troppo poca arte"", ""il troppo discorrere intorno a persona o cosa"". L'Untore è, secondo la tradizione, il malvagio che infetta gli innocenti. Ma in questo romanzo essere untori significa qualcosa di diverso: aver vissuto la morte propria e degli altri, portarne con sé il mistero, e la magra fortuna di doverlo raccontare.

La vicenda si svolge nell’arco di alcuni mesi a partire dall’estate 1946, quando il protagonista arriva alla Rocca di Palermo “con un lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo”. Qui entrerà nelle simpatie del Gran Magro, il primario del sanatorio, figura mefistofelica, interessato soprattutto alla bottiglia di Porto che il paziente conserva nell’armadio e pronto ad ammettere l’esistenza di Dio unicamente perché “non c’è colpa senza colpevole”. Tra i degenti, tutti personaggi che attendono la morte come una noia equivalente a un’altra, c’è Marta, una ballerina malata di tisi allo stadio terminale, “due volte intoccabile”, già chiamata dalla Morte perché ebrea e amante di un generale tedesco. Tra i due giovani nasce un amore senza futuro, ostacolato dalla gelosia del Magro: amore che è mistero della vita, possibilità di fuga, contrapposto all’universo del sanatorio e della malattia, che vive tra carezze sfuggevoli e le fughe in città durante le libere uscite.
C’è poi Padre Vittorio, che indaga il mistero di Dio e ne cerca ragione nello spazio infinito del dolore. Personaggi già condannati al loro destino di morte che si muovono come su un palcoscenico dell’assurdo pirandelliano, ognuno con la sua storia eccezionale. La vicenda, disseminata di prefigurazioni, epifanie di morte e di salvezza, si conclude con la fuga in macchina dei due amanti: un viaggio disperato in cui la donna troverà la morte e il giovane inizierà ad avvertire i primi segni di guarigione e di un nuovo confronto con la vita e con la Storia. Unico scampato alla morte, il protagonista torna alla vita come un Orfeo che ha perso la sua Euridice, e affida al racconto la memoria e la testimonianza.


Per questo forse m'era stato concesso l'esonero; per questo io solo m'ero salvato, e nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, se non delazione, d'una retorica e d'una pietà. Benché sapessi già allora che avrei preferito starmene zitto e portarmi lungo gli anni la mia diceria al sicuro sotto la lingua, come un obolo di riserva, con cui pagare il barcaiolo il giorno in cui mi fossi sentito, in séguito ad altra e meno remissibile scelta o chiamata, sulle soglie della notte.

Gesualdo Bufalino

Un finale aperto e angosciante, con un uomo ormai guarito eppure in qualche modo traditore verso i compagni di sventura che non ce l’hanno fatta, testimone perenne dell’orrore, reintegrato nella realtà sociale per affrontare una vita insignificante, assuefatto ormai al dolore: “Io ne ero evaso, per chissà quale disguido o colpo felice di dadi, ma, anche se salvo, più derelitto e più triste. Simile a un vetro ragnato, a un parabrezza scheggiato da un sasso; ricco, ma d'una ricchezza furtiva e inusabile, moneta di mala zecca; giovane solo a metà, e vecchissimo l'altra metà, sarei ora disceso fra gli uomini. M'aspettava una vita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace né un grido. Uscire mi toccava dalla cruna dell'individuo per essere uno dei tanti della strada, che amministrano umanamente la loro piccina saviezza d'alito e d'anni”.


Diceria dell’untore è una meditazione sul mistero della vita, dell’amore e della morte. Collegandosi evidentemente a tutta una tradizione romanzesca, da Mann a Camilo José Cela a Salvatore Satta a Fleur Jaeggy, che fiorisce intorno all’esperienza “magica” dei sanatori, luoghi di malattia eppure microcosmi di vita alternativa e possibile, il romanzo di Bufalino mette in gioco il binomio che si esprime nella poesia Amore e morte di Leopardi, consegnandoci una riflessione amara sulla vita e sulla morte in cui non manca uno sguardo ironico al retroterra melodrammatico italiano.
Intervistato da Sciascia, Bufalino parla così del suo romanzo: “Mi è venuto dall’esperienza di malato in un sanatorio palermitano: negli anni del dopoguerra, quando la tubercolosi uccideva e segnava ancora come nell’Ottocento. Il sentimento della morte, la svalutazione della vita e della storia, la guarigione sentita come colpa e diserzione, il sanatorio come luogo di salvaguardia e d’incantesimo (ma La montagna incantata, è evidente, non ha giocato per nulla). E poi la dimensione religiosa della vita, il riconoscersi invincibilmente cristiano. M’importava esorcizzare quell’esperienza; ma soprattutto mi urgeva coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che avevo dentro” («L’Espresso», 1 marzo 1981).


Lo spettacolo di Vincenzo Pirrotta


Nel 2009 il romanzo di Bufalino viene messo in scena al Teatro Verga di Catania grazie all'ottimo adattamento di Vincenzo Pirrotta, regista e attore. Il protagonista del romanzo, “colui che dice Io”, come viene definito nell'adattamento teatrale, è interpretato da un bravissimo Luigi Lo Cascio, che sembra trovarsi perfettamente a suo agio nella lingua onirica e complessa di Bufalino. Vincenzo Pirrotta, oltre alla parte di regia, ha ritagliato per sé il pomposo e surreale ruolo del Gran Magro. Dopo alcune stagioni dedicate ai monologhi, Lo Cascio torna a lavorare in una compagnia, ma anche in questo caso è assoluto protagonista della scena, l'anima dello spettacolo, che rivive e ricostruisce la storia sul palco.
Le luci vengono curate da Franco Buzzanca, i costumi e le scenografie da Giuseppina Maurizi, le coreografie da Alessandra Luberti.
Degne di nota anche le musiche composte da Luca Mauceri, che affida l'esecuzione a 4 ottimi musici: Michele Marsella (chitarra classica, basso, tastiere), Mario Gatto (sax, clarinetto, fisarmonica, basso, tastiere), Salvatore Lupo (violino, violoncello, basso) e Giovanni Parrinello (percussioni, basso).

Orchestrato magnificamente, con una una scenografia quasi viva, musiche e  movimenti scanditi dal ritmo degli strumenti suonati dal vivo, Diceria dell'untore è uno spettacolo da non perdere, anche per conoscere un testo meraviglioso, che contiene in sé già molte caratteristiche evidentemente teatrali, di un autore italiano ancora poco conosciuto e valorizzato.

Lo spettacolo avrà luogo dal 1 al 12 dicembre al Teatro Stabile di Napoli.


Diceria dell'untore, di Gesualdo Bufalino
regia di Vincenzo Perrotta
con Luigi Lo Cascio, Vitalba Andrea, Giovanni Argante, Giovanni Calcagno, Lucia Cammalleri, Nancy Lombardo, Luca Mauceri, Vincenzo Pirrotta, Plinio Milazzo, Marcello Montalto, Salvatore Ragusa, Alessandro Romano.
Teatro Stabile di Napoli - dal 1 al 12 dicembre
info: www.teatrostabilenapoli.it



24 novembre 2010 Di Sandra Bardotti

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