"Un tempo (secoli fa) queste cose succedevano con una certa frequenza. Per ragioni impalpabili, di solito per inizitiva di alcuni che io chiamo per semplificare cretini. Dei quali ricordo le facce: lisce e tranquillizzanti e a volte anche allegre e ammiccanti. Insospettabili e veloci a rientrare nella normalità espressiva dopo qualche momentaneo tic: un colpo a sistemare i capellli, una lisciata con l'indice sul naso, una grattatina all'orecchio. Poi sgambavano elastici verso le loro Bmw, sorridenti e consapevoli di sé. Partivano a razzo dopo un paio di sgassate.
È più difficile oggi riconoscere i cretini, quei cretini lì. Hanno sempre la Bmw. Ma non sono più quelli di una volta."
Ho sentito parlare di questo libro in radio qualche giorno fa. Seppur lavorando nel mondo dell'editoria e avendo sotto mano molte informazioni e molti volumi, questo mi era sfuggito. Accendo la radio in macchina, come ogni mattina andando verso l'ufficio, e mi sintonizzo su Radio Due per ascoltare Il ruggito del coniglio, la divertente trasmissione di Antonello Dose e Marco Presta. Hanno un ospite, Enrico Vaime, che sta raccontando, con la sua solita ironia, alcuni episodi del suo libro appena uscito. Sorrido da sola come spesso mi capita di fare in auto mentre ascolto questo programma: mi diverto.
Arrivata alla mia scrivania mi sembra di non poter fare a meno di leggere quelle pagine e richiedo una copia del lavoro di Vaime.
Quando arriva mi accorgo che non sbagliavo e spero di riuscire a trasmettervi questo divertimento, perché leggere pagine intelligenti e sagaci è difficilissimo (e non diciamo che una volta era diverso... l'umorismo è sempre stata una rarità!).
Il perugino Enrico Vaime non ha certo bisogno di presentazioni.
Autore televisivo e radiofonico (dove è anche conduttore di una trasmissione storica come Black Out, sulla quale ha pubblicato anche un libro: Black Out: vent'anni di intrattenimento radiofonico e altro), ha lavorato con Marcello Marchesi ed Ennio Flaiano, forse qualcosa vorrà dire. È uno degli uomini più "naturalmente" spiritosi che ci siano in circolazione.
Di libri ne ha già scritti diversi, e questo in particolare viene presentato come "la seconda puntata delle irresistibili memorie dell'autore di Quando la rucola non c'era": una bella premessa e una buona promessa, che viene puntualmente mantenuta.
Ecco gli amici che escono dalle pagine come i personaggi di Pier Lambicchi dipinti con l'arcivernice: sembra di poterli toccare, di averli accanto, così "reali"... ecco Roberto, e anche Nino, Tosca, molti giornalisti, qualche ex collega della Rai, il fallimentare traduttore del notiziario in tigrino e tigré, le sue molte ragazze di nome Paola e quella di nome Dolly, gli sbotti contro la banalità e la stupidità di Lucio Mastronardi, già prigioniero della sua folle immaginazione... una miscellanea di sorrisi e nostalgia, in cui è totalmente assente la retorica e invece regna il disincanto.
Memorabili le brevi note sulla sua creatività da pubblicitario e l'elenco delle marche e le frasi dei tempi lontani che Vaime ricorda perfettamente e incredibilmente. Ma succede a tutti, no?
"Perché mi ricordo i nomi e le marche di tempi lontani e per il resto cancellati? Per quale stortura, quale patologia?
Mi ricordo le racchette Maxima (e anche Reanda),
gli attacchi da sci Kandar,
le penne Parker 51 e Aurora 88,
i tubolari Gardiol,
il cambio Campagnolo,
il Cucciolo Siata (col serbatoio che si sistemava sulla canna e la bicicletta così sembrava una moto)
le suole Vibram,
la Cisitalia,
l'Itala Pilsen,
l'auto Volugrafo a tre ruote,
il Doppio Kümmel e il Triple Sec,
la Prunella Ballor,
il Liquore Galliano, giallo come lo Strega che aveva copiato,
Kambusa (Uàn!) l'amaricante,
la Cremidea Beccaro..."
Le prime pagine
I
La rivoluzione è scomoda
«Milano va presa di petto. Se non vuoi che ti prenda per il culo».
Gliela rimproveravo ogni volta questa frase faci-lotta a Nino. Che pure in genere ammiravo nel suo comportarsi da uomo elegante e sicuro di sé e del proprio ruolo in una società che sembrava averlo accolto nel suo provvido seno (seppure da poco).
Mi portava con lui a mezzogiorno al Biffi Scala dove un pasto corrispondeva più o meno a una settimana di paga (mia). Per lui era un sopportabile prelievo dalla liquidazione, un rivolo che scivolava via senza scalfire la sua signorile tranquillità né turbava il distacco dell'uomo che, nella propria scala di valori, aveva collocato il denaro verso il fondo.
Quando lo licenziarono dal giornale non si scompose minimamente. Assunse un'aria annoiata (dissero i testimoni oculari della scena) e interruppe il dirigente incaricato del non facile congedo, sudato e quasi al panico, con un gesto della mano. Un gesto (come l'avessi visto) leggero e benedicente, tipicamente suo.
«Mi chiami un taxi» disse con naturalezza.
Il licenziatore (che poi prese il suo posto un po' a sorpresa ma mica tanto) cercò una reazione sdrammatizzante.
«Ci davamo del tu» modulò con voce piena di garbo.
Nino ripetè il movimento della mano. E, con un sorriso lieve quanto il gesto, gli indirizzò un confidenziale: «Chiamami un taxi. Stronzo».
Erano trascorsi più di sei mesi. E Nino era ancora a spasso. In parola con diversi editori, ma la sua era una situazione non facile.
Bravo era bravo. Ma recuperato al giornalismo delle grandi testate da troppo poco tempo per cancellare un passato barricadero nell'informazione di partito. C'era persino chi gli rimproverava quella ritirata che poteva sembrare strategica, quell'abbandono di campo, sul rumore dei cingoli dei carrarma-ti sovietici. Addio al mestiere un po' avventuroso senza macchia e senza paura.
Si trovarono delle macchie. E arrivò la paura. E anche l'invito a entrare nella grande famiglia di un grande quotidiano di grandi tradizioni (e grandi rese, negli ultimi anni).
Cercavano teste lucide e facili da tagliare in caso di pericolo. E Nino lasciò Roma e si trascinò al Nord insieme a un pugno di fedelissimi, una banda che conobbi nel tempo, nella quale il reducismo (spesso cordogliante) era fortunatamente bandito. Molto uniti, solidali. Affettuosi persino, fra loro. Anche negli scazzi violenti, fatali fra maschi che agiscono nello stesso territorio, si comportavano come dei fratelli che litigano, ma si capisce che la disputa è destinata a ricomporsi.
Ci vorrebbe un episodio significativo per spiegare...
© 2008, Aliberti
Enrico Vaime – I cretini non sono più quelli di una volta
141 pag., 15 € – Edizioni Aliberti 2008 (I lunatici. Collana di libri balzani diretta da Beppe Cottafavi)
ISBN 978-88-74-24324-2
L'autore
Enrico Vaime (Perugia, 19 gennaio 1936) è un autore radiotelevisivo e teatrale italiano. Occasionalmente è anche scrittore e presentatore.
Laureato in giurisprudenza, entrò in Rai nel 1960 tramite un concorso pubblico (fu quello l’ultimo anno in cui l’azienda di Viale Mazzini organizzò così le proprie assunzioni) e per due anni lavorò nella sede milanese.
Successivamente si dedicò alla libera professione di autore collaborando alla stesura di numerosi programmi di successo quali Quelli della domenica, Canzonissima, Tante scuse e Risatissima.
Ha scritto anche alcune fiction (Un figlio a metà, Italian Restaurant, Mio figlio ha 70 anni) e numerosi musical teatrali, soprattutto per la coppia Garinei e Giovannini (Felicibumta, Anche i bancari hanno un’anima, La vita comincia ogni mattina, Pardon Monsieur Molière, Una zingara m’ha detto, Gli attori lo fanno sempre, C’era una volta… Scugnizzi).
Con Enrico Montesano fece Bravo, Beati voi e Malgrado tutto beati voi.
Conduttore dal 1980 del programma radiofonico Black Out, ha pubblicato sedici libri (che gli hanno fruttato anche parecchi premi letterari) tra cui Amare significa, Tutti possono arricchire tranne i poveri, Le braghe del padrone, Perdere la testa, Non contate su di me.
Su La7 conduce dal lunedì al venerdì il magazine di Omnibus, una rubrica di costume.
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La bibliografia
06 giugno 2008 | Di Giulia Mozzato |
"Il fascino discreto dell'amnesia è degli eletti". Gli altri sono tutti costretti a ricordare, a ripensarci, a fare bilanci e a tornare indietro. E provare anche una strana inaspettata nostalgia. E allora dopo l'autobiografico "Quando la rucola non c'era" si può sentire l'esigenza anche di un secondo capitolo, perché, "tu chiamale, se vuoi, rimozioni", ma delle cose Enrico Vaime le aveva omesse, e c'era quasi un'altra vita da raccontare. La vita che comincia nel 1960 con l'ingresso in Rai, dove se volevi fare qualcosa di meno che idiota te lo dovevi inventare, le amicizie con Nino e Roberto, con i quali attraversa Milano, gli incontri con Luciano Mastronardi, che chiese in sposa la figlia del più celebre studioso di letteratura italiana, con Giovanni che faceva la rivoluzione al piano di sopra di una sala da biliardo, con Celestino, pieno di figli oltre che di soldi e di quadri di famiglia, con contesse e grandi produttori, ballerine che ballavano da ferme e sassofonisti che eseguivano Mood Indigo in sottoveste di pizzo. Altri personaggi, altro viaggio. In un passato vicino, "quando eravamo felici" e del quale, qui, si recupera anche il linguaggio, senza tanti problemi di consecutio e corretta dizione. Una finestra su un mondo che non riusciamo più a immaginare, nel quale ci si capiva meglio e tutto era più facile.
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