Torna nei teatri italiani uno dei testi più importanti della drammaturgia del secondo Novecento: Ferdinando di Annibale Ruccello.
Nadia Baldi ne firma la regia e Gea Martire si confronta coraggiosamente con la protagonista di un testo scritto in origine per Isa Danieli.
Il risultato è certamente da vedere.
Scrive Tomasello in Il fascino discreto della tradizione. Annibale Ruccello drammaturgo:
«Non avesse scritto Ferdinando, probabilmente, senza nulla togliere alla produzione restante, Ruccello graviterebbe, a torto o a ragione, nella sfera dei molti bohemiens partenopei, dei cantori dei Quartieri (dei Quartieri Spagnoli, s’intende), ma non sarebbe il casus belli che è, della drammaturgia contemporanea. […] Ferdinando è, a partire financo dalla sua contestualizzazione storica, un hapax: il testo più scopertamente classico di Ruccello, quello in cui emergono sorprendenti le citazioni eduardiane, in cui si ostenta, nel ricorso al trauma più grave subito dalla storia del Meridione d’Italia (l’offesa della conquista savoiarda), la metafora di una minaccia odierna.»
→ I testi di e su Annibale Ruccello
Rivedere oggi il teatro di Ruccello dà la sensazione orwelliana di trovarsi di fronte a una sorta di profezia, una precoce denuncia del vuoto umano e culturale legato alla diffusione della cultura di massa e alla conseguente scomparsa delle tradizioni.
I suoi protagonisti vivono al telefono o incollati alla televisione, o ancora non si alzano mai dal letto, ma potrebbero tranquillamente essere personaggi dei giorni nostri e trascorrere il proprio tempo davanti al computer.
Ferdinando è unanimemente considerato il suo capolavoro, la sua opera più matura, perché unisce la sensibilità moderna nella descrizione dei personaggi e dell’intreccio a una forma teatrale classicheggiante, ottenendo così un effetto straniante, finanche sovversivo.
In molti hanno provato a mettere in scena quest’opera dopo la morte dell’autore, ma finora soltanto Isa Danieli, era riuscita a mantenere quel perfetto equilibrio trai vari piani di lettura, senza scadere nell’interpretazione letterale del testo o senza permettere che le innumerevoli citazioni colte prendessero il sopravvento.
Su questa scia si inserisce la messa in scena essenziale, ripulita e ritmata di Nadia Baldi.
Nell’Italia della metà del Novecento non si può parlare di un’autentica tradizione teatrale nazionale, quanto piuttosto di tante tradizioni locali.
Come sostiene Pasolini, in quegli anni «il teatro dialettale […] è l’unico teatro possibile in Italia», perché il dialetto è ancora l’idioma della quotidianità familiare, delle emozioni e delle sfumature, l’unico a permettere un reale avvicinamento agli spettatori, contrapposto all’italiano standardizzato dei mass media o a quello burocratico delle istituzioni, l’antilingua di Calvino, la lingua del potere secondo Fo.
Così, orfani di una drammaturgia nazionale, gli autori italiani cercano ascendenze nel teatro internazionale, saldo punto di partenza: la tradizione teatrale veneta, lombarda, toscana, siciliana, ma soprattutto campana.
«L’unica drammaturgia che esista, in questo momento, è napoletana. Qui c’è una tradizione, qui ci sono due padri spirituali tra cui scegliere, Viviani ed Eduardo […]» , scrive Ruccello.
Tra gli anni Sessanta e Ottanta, infatti, Napoli è al centro di una sorprendente fioritura teatrale, vivace reazione del mondo intellettuale al periodo di cambiamento e di crisi che la città sta affrontando. Si tratta di quel processo che Ruccello, fine antropologo, definisce deculturizzazione: lo sgretolarsi dei valori e delle usanze più antiche legate alla religione e alla famiglia di fronte alla prospettiva laica e sovversiva della contestazione, contemporaneamente alla diffusione dei mass media, veicolo di una cultura frivola e standardizzata
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Tuttavia i cliché folkloristici della tradizione partenopea sono ormai stucchevoli e inadeguati: poco si adattano l’ottimismo irriverente di Pulcinella, i buoni sentimenti di Eduardo, la furbizia sorniona di Totò a descrivere i profondi cambiamenti in atto.
Per questo, mentre nei teatri stabili si continua a dare spazio alla tradizione scarpettiana, nascono un po’ ovunque teatri off, dove la “napoletanità” tradizionale diventa nel contempo punto di partenza e oggetto di superamento.
Nato quasi per caso, dall’incontro con Isa Danieli durante le prove per La gatta Cenerentola, Ferdinando è unanimemente considerato il capolavoro di Ruccello, punto di svolta dell’intera drammaturgia nazionale.
Il giovane drammaturgo lo scrive in poco più di venti giorni nella primavera del 1984, a partire dalla battuta finale, un “fiore di carta”, interamente pensato per la fisicità prorompente della Danieli.
È quella “drammaturgia sui corpi”, che ha appreso dal maestro De Simone e che consiste nel cucire le parti addosso agli attori, tenendo sempre presente la pratica scenica.
Ma Ferdinando non può essere letto in termini di semplice drammaturgia consuntiva, in esso confluisce tutta la vastissima cultura dell’autore in un raffinato gioco di citazioni letterarie, teatrali e pittoriche. È un testo che agisce su più livelli, a partire dal piano puramente fonico, fino ad arrivare al sistema complesso e coltissimo delle fonti d’ispirazione.
In particolare, Ruccello dichiara di muoversi nel contesto della letteratura borghese ottocentesca, partendo dal romanzo storico e verista per degenerare poi nel genere giallo e d’appendice, fino ad arrivare alla sceneggiata popolare, di pari passo con il deterioramento della storia e dei personaggi, immagine metaforica della corruzione dei costumi nella società contemporanea.
La commedia è divisa in Quattro Quadri con esplicito richiamo ai numerosi riferimenti pittorici, tecnica ispirata ai film di Luchino Visconti.
Il primo quadro ha inizio in un’atmosfera gattopardiana: proprio come il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, anche Ferdinando si apre con una lettura del Rosario nell’ora del Vespro.
È il 5 agosto1870, nove anni dopo la caduta del Regno delle due Sicilie, momento storico scelto non a caso: lo smarrimento culturale e identitario della Napoli postunitaria infatti è immagine e metafora della deculturizzazione dei primi anni Ottanta.
La baronessa Clotilde di Lucanigro vive ritirata nella sua villa decadente, incapace di accettare il declino economico della sua casata e più in generale il tramonto del prestigio aristocratico di fronte all’avanzata della borghesia, ma soprattutto irremovibile nel rifiuto della dominazione savoiarda, straniera e mariuola, portatrice anzitutto di una lingua senza storia:
E non parlare italiano! Hai capito! Nun voglio sentì ‘o ttaliano dint’a sta casa […] Na lengua straniera!... Barbara!!... E senza sapore, senza storia!... Na legua ‘e mmerda!... Na lengua senza Ddio!
Già nell’isolamento volontario della protagonista è evidente il sottile gioco di rimandi e citazioni che attraversa tutta l’opera: malata immaginaria, Clotilde non accetta l’Unità d’Italia proprio come il Principe di Salina del Gattopardo o Don Ippolito Laurentano ne I vecchi e i giovani di Pirandello. Novella Zia Léonie di proustiana memoria, si rinchiude in isolamento in seguito alla morte del marito, non ricevendo «nessun altro all’infuori del signor curato» .
Ad assisterla Gesualda, cugina illegittima, e per questo relegata al ruolo di serva. All’apparenza mesta e virginale come un quadro di Vermeer, è inizialmente descritta con tutti i cliché della bizzoca, zitella inacidita e iper-cattolica anche nell’aspetto. Ma si tratta di un rigore apparente sotto il quale si nasconde una donna tormentata e passionale, seppur di una passione arida e calcolatrice.
Le due donne sono sole all’inizio e sole resteranno anche alla fine, il cerchio si chiude, nessun cambiamento è possibile per loro, al contempo prigioniere e carceriere nell’enorme casa desolata.
Il precario equilibrio della quotidianità di questi tre personaggi è bruscamente sconvolto dall’arrivo di una lettera.
È la prima di due scene nelle quali l’autore sfrutta questo frequentatissimo topos teatrale, decisione significativa della volontà di innovare restando saldamente ancorato alla tradizione. La missiva è firmata da un certo notaio Trinchera. Con il tono ampolloso di un azzeccagarbugli, il dottor Trinchera informa Clotilde della morte di due lontani cugini del suo defunto marito che lasciano il loro unico figlio, Ferdinando, «solo al mondo e unico erede di una discreta fortuna». La baronessa è la parente più prossima e quindi la tutrice designata per il ragazzo.
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La figura ambigua del ragazzo porta con sé numerosissimi riferimenti pittorici, letterari, teatrali e cinematografici.
Personaggio ambivalente, angelo e diavolo insieme («Del resto lo stesso diavolo non era anch’egli un angelo, un tempo?»), in grado di donare la vita sotto forma di energia sessuale, ma allo stesso tempo di provocare la morte, Ferdinando è la borghesia che avanza, nel secondo Ottocento come alla fine del Novecento, con i suoi ideali utilitaristici, l’interesse esclusivo per il guadagno, la volontà di far piazza pulita delle antiche consuetudini, percepite come un freno.
La storia prosegue con passaggi che non devono essere svelati per non annullare il piacere della scoperta da parte dello spettatore.
Come scrive Nadia Baldi:
«Le follie e gli incroci amorosi contenuti nella trama emergeranno come elementi contemporanei e modernissimi che da sempre regolano la potenza dei sogni e degli affetti presenti nella storia dell’umanità. Ferdinando mette in luce le connessioni esistenziali fra dramma e malinconia, comicità e solitudine, sottolineando tali contrasti attraverso un uso di una messinscena che mira a svelare gli opposti sentimentali disseminati in tutte le esistenze.»
Testo critico di Carlotta de Lorenzo
Milano - Teatro Franco Parenti
23 ottobre 4 novembre 2018
con Gea Martire, Chiara Baffi, Fulvio Cauteruccio, Francesco Roccasecca
regia Nadia Baldi
costumi Carlo Poggioli
scenografia Luigi Ferrigno
consulenza musicale Marco Betta
aiuto regia Rossella Pugliese
organizzazione Sabrina Codato
progetto luci Nadia Baldi
foto in videoproiezione Davide Scognamiglio
produzione Teatro Segreto
Tournée
- dal 5 al 25 novembre al Teatro Bellini di Napoli
- dal 13 al 15 novembre al Libero di Palermo
- dal 16 al 21 aprile al Teatro La Cometa Roma
- 26 Marzo Teatro Verdi di Salerno
- 28 marzo Comunale di Santa Maria Capua Vetere Caserta
- 29 marzo Gesualdo di Avellino
- Aprile Circuito Pugliese
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