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Le guerre di Gian Carlo Caselli

Venerdì 15 maggio 2009, nell'ambito della Fiera Internazionale del Libro di Torino, Gian Carlo Caselli ha presentato, presso lo Stand IBS, il libro che ha scritto insieme con suo figlio Stefano: Le due guerre. Perchè l'Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia. Ettore Boffano ha intervistato padre e figlio in merito a questioni giudiziarie, ma non solo: vengono raccontati anche piccoli aneddoti che ci mostrano dei grandi uomini nei loro lati umani, a prescindere dalla loro professione. Una domanda viene posta anche a Diego Novelli, che esprime il suo punto di vista riguardo alle differenze sostanziali esistenti tra la scena politica degli anni sessanta e settanta, periodo in cui lui era politicamente attivo, e quella odierna.

Leggi la recensione del libro Le due guerre. Perché l'Italia ha sconfitto il terrorismo e non la mafia

Stefano, cominciamo proprio dal titolo del libro. Perchè, secondo te, si è giunti a questo risultato? Qual è la discriminante che ha permesso la sconfitta del terrorismo mentre la lotta alla mafia sembra non avere fine?


Prima di provare a rispondere a questa domanda, a cui tra l’altro non devo rispondere io ma risponderà Gian Carlo, mio padre, vorrei dire un’altra cosa: nel libro c’è un aspetto abbastanza inedito, che è questo lato un po’ privato di cui parlava Ettore all’inizio. Erano proprio le storie che a me, in quanto giornalista, un po’ figlio un po’ giornalista, interessavano. Mi interessavano più le storie che non l’analisi, almeno in questo caso, ed è stata anche un’opera di sopravvivenza per me, perchè Giancarlo ha un raro pregio, che è quello di parlare sempre e soltanto delle cose che conosce benissimo, ed è un pregio che però ha un risvolto per chi gli sta vicino per più di trent’anni, e cioè che continuare sempre ad ascoltarlo dire sempre le stesse cose diventa di una noia mortale, per cui alla fine uno cerca di scuoterlo un po’ finchè qualcosa viene fuori. Adesso ci rido, ma ci sono ricordi di amici, colleghi e non colleghi che, soprattutto negli anni di piombo, sono morti, persone che spesso si celebrano come eroi ma che di essere eroi non avevano nessuna intenzione, persone che lui ha conosciuto, persone che lui ha visto. Poi ci sono altri capitoli in cui si parla di persone “viste da vicino”. Un sacco di gente,  da Patrizio Peci a Roberto Sandro a Marco Donat Cattin, che erano i pentiti storici, a tutti i pentiti di mafia, e anche lì cercare di tirargli fuori delle storie non è stato facile. Lui si ripara sempre dietro la deontologia, poi alla fine qualcosa si riesce a tirare fuori, anche con dei siparietti abbastanza graziosi. Conoscete tutti Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando che uccise Giovanni Falcone, la scorta, e la moglie Francesca Morvillo. Lo stesso personaggio che ha strangolato Giuseppe Di Matteo, il figlio di  un pentito, e lo ha sciolto nell’acido. Quando gli ho chiesto di parlarmi di Giovanni Brusca mi ha risposto, “Mah, con Giovanni Brusca non è che abbia avuto proprio un grande rapporto”. Beh, effettivamente non era proprio la persona migliore con cui magari uscire la sera a bere un bicchiere di vino e cose di questo genere.

Passiamo all’impressione che io mi sono fatto sul perchè sia stato più facile battere il terrorismo che non la mafia. Paradossalmente, io posso parlare un po’ di più, e meglio, di quello che è il terrorismo, di quello che sono stati gli anni Settanta, perchè questo periodo mi ha sempre affascinato ed è una cosa su cui ho sempre lavorato per conto mio. C’è una cosa molto bella che ha detto Benedetta Tobagi, figlia di Walter Tobagi: ha detto che nel momento in cui si è trovata di fronte agli assassini di suo padre, si è trovata di fronte a uno squilibrio terribile tra la piccolezza e la fragilità di queste persone e l’enormità delle cose che avevano fatto. Credo che questo sia sostanzialmente il motivo che ha portato il terrorismo ad essere, come dice Gian Carlo, un’alterità rispetto alla società, un’alterità totale, una cosa altra, che non ha niente a che fare con i problemi reali e quotidiani della vita di ciascuno. Ci è voluto molto tempo perchè questo si capisse, ma alla fine si è capito, e il terrorismo è stato proprio espulso come un corpo estraneo. Ha influito anche la crisi stessa dei protagonisti di questa lotta armata, che a un certo punto hanno capito che si erano inventati una guerra assurda. Per quanto riguarda la mafia, io non sono un esperto. Non lo sono neanche di terrorismo, ma di mafia meno che mai. Quello che viene fuori da questo racconto, da questa testimonianza, è molto chiaro. Rubando l’idea a un mio amico scrittore, Gianluca Favetto, ho scritto che lo Stato di fronte alla mafia è stato a undici metri dalla fine. Undici metri dalla fine è appunto il titolo di un libro di Gianluca Favetto. Undici metri come la distanza da tenere per tirare un calcio di rigore, ma si è preferito rinunciare e rientrare negli spogliatoi. Questa è una storia ricorrente, lo è stata ai tempi degli anni Novanta, quando Gian Carlo era alla guida della Procura di Palermo, ma era già capitato anche prima, nel momento in cui si era arrivati a un certo punto della lotta alla mafia ma poi, per motivi che non sono certo io a dover spiegare, si è arretrato.


Libri di mafiosi non ce ne sono molti, i mafiosi non scrivono libri per spiegare la propria esperienza. Tuttavia, ci sono tantissimi ex terroristi o persone che sono transitate nella galassia dell’eversione armata, che hanno scritto libri, e alcuni ne hanno scritto più di uno. Molti di loro si sono imbattuti in un Giudice Istruttore che si chiamava Gian Carlo Caselli. Per una serie di problemi di procedura penale e di competenza, molte delle inchieste italiane sono finite a Torino. Spesso, omicidi di magistrati compiuti tra Milano e Genova affliuivano alla procura di Torino, perchè una procura non può indagare su un reato compiuto contro un proprio magistrato. Molti di loro sono stati imputati di Gian Carlo Caselli, molti raccontano il loro primo impatto con questo magistrato e, con toni diversi, per lo più tutti sottolineano una cosa: è uno che ha le nostre idee. Ma veniamo tutti da una cultura di progresso, di sinistra, e sottolineano poi lo scontro, perchè in alcuni casi ci sono interrogatori molto esasperati. Come spiega Caselli nel suo libro, ci sono episodi inventati, mai avvenuti, di aggressioni, di pugni dati al magistrato. Io vorrei provare a rovesciare. Nel libro c’è una cosa che mi ha colpito molto, ed è il giudizio su uno dei terroristi, uno dei fondatori delle Brigate Rosse, che si chiama Maurizio Ferrari. Era del nucleo storico, uno di quelli che non si erano mai macchiati di fatti di sangue, come si diceva, non avevano mai ucciso, facevano al massimo sequestri di persona. Si è fatto tutta la detenzione, è stato condannato nel famoso processo di Torino di cui parlava Novelli, è sempre stato un irriducibile, si è sempre rifiutato di avere sconti di pena. Caselli, impressionato dalla dignità di quel personaggio, gli rende l’onore delle armi.


Allora io vorrei chiedere a Caselli, se è possibile, innanzitutto di rispondere a un quesito: quanto c’è di differenza tra terrorismo di sinistra e mafia quanto ai protagonisti, ai capi, ai soldati, ai militanti, e nell’altro caso ai boss, ai picciotti. Poi vorrei chiedere una cosa che nel libro è spiegata molto bene, sta nel titolo ma poi è spiegata in parecchi capitoli, articolata di volta in volta fino alla fine, quando si affronta il caso Andreotti. Dove e quando tutto si è fermato? Quando la scommessa è stata fermata? Chi l’ha fermata, di chi sono le responsabilità? Non si dice mai come finisce di un libro, neanche se si tratta di un saggio, come questo, ma chi lo leggerà scoprirà una cosa, che Caselli non perdona nessuno: non perdona nulla alla politica di oggi, alla politica di due schieramenti, la sinistra e la destra. Non è tenero neanche con la sinistra. Caselli spesso è stato accusato di essere una toga rossa, di essere un giudice comunista. In italia è stata fatta per Caselli una legge ad personam, per impedirgli di diventare, come poteva essere direi naturale per ciò che aveva fatto e per i titoli che aveva, procuratore nazionale antimafia. Cioè, una legge giocata su questioni anagrafiche per impedire che Caselli diventasse procuratore nazionale antimafia. Ha vinto anche dei processi per diffamazione. Sgarbi, per esempio, è stato condannato per averlo diffamato con espressioni molto gravi, l’aveva addirittura definito un assassino. Chi sono i colpevoli di questo rigore che a undici metri si è fermato e non è mai stato tirato?


Innanzitutto, lasciatemi sfiorare il ridicolo ringraziando fortissimamente mio figlio Stefano per la pazienza che ha avuto e per il buon risultato che ha conseguito. Vi ha detto che lui si intende di terrorismo ma non altrettanto di mafia. Nell’introduzione che Stefano ha scritto a questo libro troverete una chicca che non vi racconto, gustatevela leggendo, che vi farà capire fino a che punto non si tratti di non capire o di non sapere, ma si tratta di un rifiuto magari inconsapevole di sapere e di capire di mafia. Prima di provare a rispondere alle domande, io vorrei dire una cosa soltanto: questo è un libro che è una galleria di personaggi, terroristi, mafiosi, ma soprattutto ci sono tanti colleghi ai quali mi legava un rapporto di amicizia professionale e umana molto stretto. E queste sono pagine tristi. Ancora più tristi quando si intrecciano con ricordi che di per se stessi potrebbero sembrare dolci. Ne cito uno soltanto per tutti: Guido Galli, collega giudice istruttore di Milano, ucciso da Prima Linea anche perchè, come Alessandrini, non aveva la scorta. Faceva il nostro stesso lavoro, non solo era più facile colpire lui perchè non aveva la scorta, era anche politicamente più produttivo, perchè colpire uno non protetto significava svillanneggiare lo Stato, che non aveva protetto un suo così importante servitore. Sono tanti i ricordi di Guido Galli, ma quello dolce e tristissimo al tempo stesso si intreccia proprio con Stefano. Galli e io ci troviamo una certa sera su un treno che sta per partire dalla stazione di Bologna. Galli era un intellettuale finissimo, un grande giurista, e lo vedo che maneggia dei fumetti, degli album di topolino. Lo prendo un po’ in giro, gli dico ma come, quel grande giurista che tutti sappiamo essere Guido Galli che legge queste cose. E lui serenamente mi risponde che erano per i suoi figli, lui aveva quattro figli, e che ogni volta che andava fuori Milano comprava qualcosa, album di fumetti per portarli ai suoi figli. Allora gli faccio la battuta, anch’io ho due figli, quando i tuoi figli hanno letto questi album passameli che così li utilizziamo in due famiglie. Una quindicina di giorni dopo, pochissimi giorni prima, purtroppo, del suo assassinio, rivedo Guido Galli. Vado a Milano, nel suo ufficio, e quando entro vedo che sulla scrivania c’è un pacchetto, con carta colorata e fiocchetto; me lo consegna e dentro ci sono questi album di fumetti per Stefano che da lì a pochi giorni avrebbe compiuto gli anni. Ecco che le cose si intrecciano in una maniera che è difficile da ricordare. Questo era Guido Galli, ho fatto questo esempio, ma ce ne sono tantissimi altri nel libro, per dire che il nostro obiettivo è stato questo, quello di tracciare anche soltanto la grandezza, il livello, la straordinaria statura morale, intellettuale e umana di tanti, tantissimi uomini, magistrati quelli che io ho conosciuto di più e più da vicino. A fronte della grandezza e della dolcezza di questi uomini, la violenza terroristica, già di per se stessa totalmente priva di significato e di valore, perde totalmente ogni possibilità di essere inquadrata in categorie umane.


Per quanto riguarda la domanda sulla differenza tra terroristi e mafiosi, ci sarebbe da parlare un intero pomeriggio. In estema sintesi, mentre i mafiosi sono sempre e comunque mossi da obiettivi di arricchimento, di potere, di sopraffazione, di rafforzamento del proprio prestigio nel senso deteriore del termine, e della propria famiglia o della cordata a cui appartengono, non c’è dubbio che i terroristi partano con obiettivi e prospettive che sono del tutto differenti. Vogliono qualcosa di nuovo, con una pratica criminale, da condannare senza riserve, ma vogliono almeno nella fase iniziale del loro percorso qualcosa di nuovo. Sono mossi, faccio fatica a usare questa parola, da ideali; faccio fatica perchè questa parola poi la traducono quotidianamente in ammazzamenti e gambizzazioni di persone sconosciute, innocenti, prese a simbolo di un potere da abbattere in nome un’astrazione, di un fanatismo ideologico. Partono così, ma poi c’è una degenerazione delle azioni armate che li avvicina sempre di più ai mafiosi. Le pratiche finiscono per essere sostanzialmente coincidenti.

L’esempio clamoroso, emblematico, tragico, terribile è Parizio Peci da un lato e Santino Di Matteo dall’altro. Patrizio Peci, il primo brigatista capo della colonna di Torino delle Brigate Rosse, parla. È l’inizio della slavina, dello smantellamento delle Brigate Rosse e poi di Prima Linea. La rappresaglia delle Brigate Rosse scatta feroce, il sequestro, la prigionia, i maltrattamenti, una tortura psicologica se non anche fisica del fratello, Roberto Peci, poi alla fine ammazzato in una discarica. E tutto questo soltanto perchè suo fratello è stato il primo a smantellare la compattezza fino a quel momento impenetrabile delle Brigate Rosse. Anni dopo, a Palermo mi toccherà dividere un’esperienza sostanzialmente coincidente: Santino di Matteo, mafia di Altofonte, responsabile di centinaia di omicidi, catturato dalla procura di Palermo per questa infinità di omicidi, chiede di parlarmi una prima, una seconda, una terza volta. La terza volta finalmente parla. Ma non parla dei tanti omicidi per cui Palermo l’aveva arrestato. Si siede davanti a me e mi dice, io voglio parlare di Capaci. Tutto questo è raccontato un po’ più diffusamente nel libro. E racconta per filo e per segno tutto quello che un investigatore potesse desiderare di sapere su Capaci, i nomi, i cognomi, gli indirizzi, i ruoli, suoi e di tutti i suoi complici. Tutto quello che si poteva e si voleva sapere di Capaci lui lo racconta in un interrogatorio che comincia alle due di notte e finisce alle sei del mattino. Anche qui scatta feroce, nazista, la rappresaglia mafiosa. Il figlio tredicenne, ricordato prima da Stefano, Giuseppe Di Matteo, viene sequestrato, tenuto prigioniero per diciotto mesi, torturato, maltrattato in una maniera assolutamente incredibile. Alla fine, proprio mentre la televisione trasmette la notizia della condanna all’ergastolo di uno dei suoi sequestratori, viene strozzato a mani nude, e il suo cadavere viene sciolto nell’acido. Tutto questo perchè figlio di suo padre. Essendo suo padre quello che ha osato rivelare il segreto dei segreti, la strage di Capaci, l’attacco al cuore dello Stato dei corleonesi, ciò che i corleonesi non avrebbero mai voluto si sapesse. Ecco allora punti di partenza differenti, ma progressi, sviluppi, esiti, anche per quanto riguarda le pratiche, persino sovrapponibili. Rappresaglie di stampo nazista, volontà di sopravvivere a ogni costo, anche passando sopra a tutto come trattori, livellando tutto quello che deve essere livellato. Non a caso il nome di battaglia, per così dire, di Provenzano è “U Tratturi”.

L’altra domanda è ancora più difficile, ancora più impegnativa. Dove e quando, sul versante dell’antimafia, tutto si è fermato, chi lo ha fermato, chi ha questa responsabilità. Non lo so. Nel libro, Stefano è stato molto preciso nel ricordarlo, io mi muovo nel perimetro dei fatti che professionalmente ho conosciuto e che rientrano nel perimetro delle conoscienze processuali allo stato degli atti acquisiti, almeno fino alle 17.30 di oggi, perchè c’è sempre la riserva, chissà domani, o dopodomani cosa sarà eventualmente acquisito che ci farà cambiare idea o prospettiva. Però, anche nel libro Stefano e io proviamo a dire qualcosa, ma proprio per non uscire dagli obblighi deontoligico-professionali di un magistrato, io per trovare risposte a queste domande mi appello a Paul Ginsborg e alle cose che ha scritto commentando un altro libro che era L’eredità scomoda, scritto con un collega di Palermo, Ingroia, e con un giornalista di nome Maurizio De Luca. Ora, Paul Ginsborg, e io sono d’accordo con lui, osserva come a partire dal 1996 la Magistratura, la lotta all’illegalità in tutte le sue articolazioni, quindi anche alla mafia, non sia più prioritaria, quanto meno sulle agende della politica. E poi Paul Ginsborg osserva giustamente che quando ci si occupa di Riina e soci va tutto bene, ma le cose non quadrano più quando ci si comincia a occupare anche di quella che, con una formula ormai entrata in uso corrente, si chiama borghesia mafiosa; che non vuol dire che tutti i borghesi sono mafiosi, vuol dire che c’è una parte consistente della borghesia che con la mafia fa affari, che con la mafia accetta di convivere, che gli va bene che ci sia la mafia, perchè c’è un intreccio di rapporti, di favori e così via. Quando le nostre indagini toccano anche imprenditori, commercianti, liberi professionisti, medici, avvocati eccetera, allora ecco una sorta di crisi di rigetto. Ci viene detto, altolà, state esagerando! finchè vi occupate dei mafiosi di strada va bene, ma quando salite di livello non va più bene. E in questa crisi di rigetto che rivela Paul Ginsborg, hanno buon gioco a inserirsi, in maniera dirompente, lacerante, coloro che avevano ben più precisi e inquietanti interessi da difendere. I politici, gli amministratori, gli uomini delle istituzioni, che con la mafia avevano avuto non soltanto intrecci marginali, ma intrecci organici, coperture, complicità, in modo da realizzare l’altra faccia della mafia, la spina dorsale del potere mafioso. Scatta allora il cosiddetto “effetto biennio”, che hanno sperimentato sulla loro pelle Falcone e Borsellino ai tempi del pool, e che sperimentiamo in una certa misura anche noi della procura di Palermo sulla nostra pelle dopo le stragi. Quando la mafia supera certi livelli di attacco, scavalca una certa asticella ideale, allora c’è la delega alla magistratura e alle forze dell’ordine per intervenire, carta bianca. Ma dopo un biennio, anche se durante questo biennio si sono conseguiti risultati imponenti, e questa imponenza di risultati vale per Falcone e Borsellino, e modestamente vale anche per noi della procura di Palermo, ecco che scatta l’effetto biennio, cioè succede qualcosa che inceppa. Nel caso di Falcone e Borsellino si blocca irreversibilmente l’azione di contrasto, e quello che sembrava a portata di mano ecco che svanisce, e il calcio di rigore, quando sei lì sul dischetto degli undici metri non riesci più a batterlo e devi in una certa misura tornare negli spogliatoi. Ecco un intreccio di fattori, un intreccio di circostanze, di fatti. Ho cercato molto semplicemente di esporre quelli che a me sono sembrati più significativi.


Stefano, in tutte queste storie che hai ascoltato, c’è un personaggio che magari hai conosciuto quando eri bambino, o una storia, a cui sei legato particolarmente? O che segna il tuo vissuto famigliare rispetto a tutto questo mondo, a tutto questo pezzo di storia italiana?

Io credo indubbiamente Patrizio Peci, perchè questo nome era molto simile a Pecci, che giocava nel Toro, quindi io li confondevo continuamente. E non è finita: il mio papà mi porta allo stadio per la prima volta il 18 settembre del 1980. Torino-Pistoiese 1 a 0, goal di Patrizio Sala. Io dormii per tutto il tempo, ma poi sono andato a controllare negli annali e ho visto che quella effettivamente è stata la prima partita che ho visto, e poi scopro che il 18 settembre del 1980 è successivo al 1° aprile 1980, quando Patrizio Peci decide di pentirsi, e poi il  5 maggio è la volta di Sandro di Prima Linea, quindi finalmente mio padre può portare allo stadio suo figlio più piccolo, che quella volta si addormenta ma poi, dopo due anni, verrà aggredito anche lui da questa malattia che non va più via, come recita un coro che noi poveri tifosi del Toro continuiamo a cantare.

Diego tu sei stato un uomo politico protagonista di quegli anni. Quanto conta la politica della prima repubblica rispetto alla seconda in quegli anni, c’è una differenza? Secondo te oggi, questa politica, sarebbe in grado di reggere quell’urto? La politica del consenso che guarda i sondaggi e che dice, dico una cosa o non la dico? E se mi porta via lo 0,1 di consenso? La classe politica di oggi farebbe quelle scelte, che non erano facili e in alcuni casi non  davano neanche consenso?  


Io ho sulle spalle sessant’anni di vita politica, di impegno politico, perchè ho incominciato che ero un ragazzino. Alla fine della guerra mi sono iscritto al fronte della gioventù, quello vero, quello di Berlinguer e di Eugenio Curiel, e poi via via, a diciannove anni sono entrato all’Unità e poi nel ‘75 mi è capitato anche di fare il sindaco per dieci anni. Io non ho mai vissuto, in questi sessant’anni, un momento così angosciante, perchè non ci sono punti di riferimento, perchè nella prima repubblica, per tanto che si possa dire di negativo, esistevano dei punti di riferimento, esisteva un partito comunista italiano, esisteva un partito socialista italiano, esisteva una destra liberale che non ha niente a che spartire con questa destra qui. In quegli anni, soprattutto negli anni ’60 e ’70, nella stagione torinese, dopo il concilio vaticano secondo, lo dice un non credente ma che ha sempre seguito con grande attenzione le vicende della Chiesa e del mondo cristiano, qui a Torino abbiamo avuto un Arcivescovo che si chiamava Michele Pellegrino, che andava sul pulpito del duomo, a condannare i crumiri. Parliamoci chiaro, il 30 aprile, alla vigilia del 1° maggio lui ha detto, chi non partecipa all’azione di solidarietà, cioè allo sciopero, non ha diritto di partecipare a quello che verrà ricavato dall’azione sindacale. È il vescovo che cancella i cappellani di fabbrica perchè facevano da mediazione, e istituisce i preti operai, cioè i preti che si mettono la tuta e vanno a lavorare in fabbrica. Quindi la situazione era profondamente diversa, io adesso non voglio essere disfattista, il fatto è che non vedo come ci sia qualcosa a cui aggrapparsi in questo momento. La mia speranza e la mia fiducia derivano dal fatto che, da parecchi anni, da quando ho smesso la politica attiva di partito, perchè non sono più iscritto a nessun partito, e grazie all’amicizia con Luigi Ciotti, ho iniziato a frequentare i giovani del gruppo Abele, di Akmos, di Libera, della Terra del Fuoco, devo dire che lì c’è una grande speranza. Senza retorica, io non amo il giovanilismo, non amo i quarantenni che si mettono a fare le corsette con i giovani senza ricordarsi che hanno le vene varicose, l’ernia del disco e l’asma bronchiale, detesto questo giovanilismo stupido, però la mia speranza è in questi giovani. Quando senti dei giovani che ti dicono, questo mondo così com’è non ci piace, con tutto quello che sta succedendo proprio in queste ore, visto quella tomba che è diventata il Mediterraneo, i provvedimenti che sono presi in queste ore, queste sono cose che devono far riflettere, e fanno riflettere soprattutto i giovani. Io l’ho avvertito in questi giovani, quindi ripongo una certa fiducia, anche se non avrò molti anni ancora, ma se non altro i miei nipoti vedranno un cambiamento. Se mi permetti, solo una battuta sulla mafia. Io non sono un mafiologo, non mi sono mai occupato a fondo di mafia, ma nel 1971 sono stato inviato dal mio giornale a fare un’inchiesta in Sicilia.



Sono stato giù quasi tre mesi, e alla fine ho raccolto tutta una serie di appunti, poi ho pubblicato un libriccino. Il terzo capitolo ha come titolo Mafia e politica, e inizia così: Chi è Vito Ciancimino? Ripeto, 1971. E poi, racconta la storia del povero Almerigo, un giovane democristiano, serio, assassinato nel suo paese, a Campo Reale. E poi ho avuto una disavventura a Riesi, perchè parlo di un mafioso, un certo Di Cristina, e scrivo che questo qui è il portaborse di un onorevole repubblicano, l’onorevole Gunnella. Il giorno dopo l’uscita di questo mio articolo sull’Unità esce, a mia insaputa, una lettera sull’Unità, che praticamente chiede scusa all’onorevole La Malfa, il quale protesta, dice che questo qui non ha niente a che spartire, dice che ciò che ha scritto Novelli, che egli è l’uomo di fiducia di Gunnella, è assolutamente falso, e tale da rappresentare una grave offesa non solo per l’uomo, ma per l’intero partito. E il mio giornale pubblica la lettera di La Malfa, gli chiede scusa dicendo che “è sfuggita dalla penna del nostro inviato”. Ovviamente la cosa mi ha fatto imbestialire, allora ho fatto io un’altra lettera dove ricordo all’onorevole La Malfa che a me non è sfuggito proprio niente, e ricordo che i risultati elettorali alle amministrative del ’67 il PRI ha raccolto 12 voti, mentre alle politiche del ’68 i voti furono oltre 400, e le preferenze vennero assegnate secche all’onorevole Gunnella. Questo la dice lunga sul rapporto tra mafia e politica. D’altra parte, è la storia del nostro Paese, già prima dell’unità d’Italia c’è sempre stato un connubio tra quelle che Gramsci chiamava le classi dominanti, non le classi dirigenti. Nel suo bellissimo libro Risorgimento dice, qui ci sono delle classi dominanti, non dirigenti, e la differenza è sostanziale, come sta capitando adesso; adesso non abbiamo una classe dirigente, abbiamo qualche singolo dominante, qualche cavaliere di troppo, ma non entriamo in altre questioni. Il fascismo non è riuscito a debellare la mafia. Perchè non ci è riuscito? Perchè non aveva interesse. Il famoso prefetto Mori l’hanno liquidato, perchè gli interessi, il connubio tra mafia e politica, tra mafia e potere, tra mafia e classi dominanti non è stato spezzato.


Caselli, nel tuo libro dici una cosa che ti ha guidato sempre, dal terrorismo fino alla mafia, e cioè che hai sempre voluto sapere il meno possibile su come venivano fatte le indagini da parte delle forze di polizia. Tu volevi conoscere le notizie di reato che ti portavano, volevi essere coinvolto il meno possibile nel modo in cui lavoravano e operavano. Hai conosciuto alcuni dei grandi inquirenti dell’antiterrorismo e dell’antimafia, a cominciare da uno che è stato entrambe le cose e che sulla mafia ha lasciato la vita, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ti chiedo un’ultima cosa. C’è qualcosa che non ti è chiaro, qualcosa che non ti è mai piaciuto in quegli anni, in quei dieci anni tra terrorismo e mafia? C’è qualcosa che vorresti aver capito meglio?


Indubbiamente, nel libro ci sono quanto meno degli accenni al riguardo, e allora invece di rispondere esplicitamente, ancora una volta rimando al libro. Ma per chiudere, ringraziandovi per la vostra presenza fino a questo momento, io vorrei soltanto dire che nel libro ci sono anche momenti leggeri, non è soltanto un libro di imprese “epiche” o drammatiche. Diego ricordava la difficoltà di far partire la cosiddetta dissociazione, le aree omogenee create qui a Torino. Nel libro c’è un episodio che io ho sempre ricordato e continuo a ricordare come abbastanza gustoso. Niccolò Amato, il capo delle carceri che organizzava insieme a Diego questi seminari, un giorno decide di far partecipare a un’assemblea anche magistrati, pubblici ministeri e giudici istruttori, perchè noi eravamo contrari alla dissociazione, temevamo che fosse un escamotage per uscire senza pagare dazio. Però partecipiamo a questa riunione, ma molto diffidenti, tanto diffidenti che stiamo in piedi, appoggiati alla parete, come fossimo tappezzeria, e comincia l’assemblea. Parla per primo il capo di Prima Linea, si chiamava Robertino Rosso, e parla, parla, parla, orologio alla mano quaranta minuti, e in perfetto politichese, brigatese, primalineese, un linguaggio davvero difficile da ascoltare e digerire, poi finisce di parlare e si siede, si alza un militante di Prima Linea della Val di Susa che serenamente, sorridendo, rivolgendosi per combinazione proprio a me, dice: “Dottore, adesso ha capito perchè abbiamo perso?”.  Il militante di base che irride pubblicamente i presenti magistrati di guerra, al suo capo, il segnale per noi importante che le cose stanno cambiando, che ci si può fidare anche di chi vuole praticare soltanto la strada della dissociazione senza pentirsi e così via. Rileggendo questo libro, come credo capiti a tutti, mi sono accorto che avevo dimenticato due cose. Mi dispiace averle dimenticate, non credo che ci sarà mai una seconda edizione, ma se ci fosse le infiliamo. Padre Bachelet, che per quanto riguarda la dissociazione ha avuto un ruolo importantissimo, ha scritto a tutti i detenuti, ha frequentato carceri, e poi ha scritto un libro preziosissimo, onorandomi di una prefazione, intitolato Tornate ad essere uomini. Questo era il suo obiettivo, questo era il risultato conseguito. E poi un grande comandante partigiano del cuneese, di cui non faccio il nome perchè tocco un aspetto molto privato, nostro, e forse non l’ho scritto anche per questo motivo. Quando parto per Palermo viene nel mio ufficio e mi regala la cosa più preziosa, che ha sempre portato con sè durante tutta la guerra partigiana, e che conservava ancora addosso fino a quel momento. Me la passa, come una specie di testimone. Queste sono quelle piccole cose che uno si porta dentro, e anche per questo motivo magari non le vuole scrivere in un libro. Tuttavia, oggi la volevo ricordare, perchè questo grande uomo, come tanti altri, grandi, medi e piccoli, col loro affetto e col loro sostegno hanno aiutato me e tanti colleghi a tirare avanti anche nei momenti più difficili.


29 giugno 2009 Di Ettore Boffano

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