Sono partito da solo da Alessandria con un piccolo peschereccio quasi distrutto. Sono partito all'improvviso, senza salutare la mia famiglia. Sono scappato perché nel mio paese non ero più libero di professare la mia fede. Sono scappato perché temevo per la mia vita e per quella dei miei genitori. Sono entrato a far parte di un nuovo popolo, in cui bisogna fare i conti con molte cose. Prima di tutto con sé stessi, poi con il pudore, la vergogna, la paura. Questo è il popolo dei migranti.
Io sono diventato un migrante.
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Un popolo, quello dei migranti, che non ha nome né volto, che non ha il diritto di stare al mondo. I loro, sono occhi impauriti e raggrumati dietro una rete metallica, sono volti sporchi e consumati dalla fame e dalla sete, corpi sudici scavati e lordati dalle peggiori condizioni igieniche. No, non hanno il diritto di stare al mondo questi migranti. Sono animali rinchiusi in gabbia. No, peggio, per lo meno gli animali sono degni del più nobile rispetto, sono degni di cibo e acqua, di un posto dove dormire, di un’onorevole sepoltura. Il popolo dei migranti no. Il popolo dei migranti non appartiene né a specie umana, né a specie animale. Parlano le lingue dell’inferno, si ammassano, si infettano, annaspano. Rimandateli sui loro barconi, cosa vogliono da noi, prima gli italiani, vengono qua e vogliono privarci di tutto, del nostro cibo, del nostro lavoro, non diamogli niente, non guardiamoli in faccia, non rischiamo di incrociare i loro occhi perché a guardare bene, là in fondo, potremmo trovare qualcosa che ci assomiglia, accorgerci che sono esseri umani, proprio come noi.
Remon è il migrante numero 92 quando scende da quel barcone delle anime sporche, senza nome né storia. È un bambino egiziano, un giorno partito da solo dalla sua città, perché perseguitato a causa della sua religione: Remon è un cristiano copto e, dopo la Rivoluzione egiziana del 2011, quelli come lui hanno iniziato a essere perseguitati. Remon è il numero 92 di un barcone anonimo. Ancora l’ennesimo barcone che affolla i servizi del telegiornale all’ora di cena.
Remon è fuggito per cercare la libertà, per inseguire il suo sogno: diventare un ingegnere. Ma la libertà non sempre è gratuita. Lo è per noi, nati e cresciuti in un paese di pace, dove basta afferrarla, se la si vuole davvero. Eppure ci sono paesi in cui la libertà ha un prezzo altissimo: il prezzo di abbandonare la propria famiglia, il prezzo di sopravvivere alla nostalgia. Il prezzo di lasciare lingue e costumi conosciuti per approdare in terre nuove e sentirsi diversi. Il prezzo di un viaggio al limite dell’immaginabile. Il prezzo di arrivare dall’altra parte e di non sentirsi ancora liberi, perché diversi ancora una volta, perché brutti e sporchi, perché barbari, perché rozzi e incivili, perché musulmani, perché siriani, perché egiziani, nigeriani, senegalesi, libanesi...
Ph: Massimo Sestini, 7 giugno 2014. Vincitore del World Press Photo Award 2015.
Ma quanto costa, questa libertà? Remon, dall’esperienza dei suoi quattordici anni, ha intuito solo una piccola parte di quello che sarebbe stato il dolore di quel viaggio, ma non si è fatto spaventare. Per un cristiano copto vivere nell'Egitto musulmano oggi significa vivere nelle persecuzioni, nelle violenze quotidiane, nell’emarginazione. La scuola era diventata il suo peggior incubo perché lui, uno dei pochi cristiani in mezzo a una comunità musulmana, veniva denigrato ed escluso da tutti, persino dai professori che muovevano punizioni contro la sua persona fisica. Tenendo lontana la famiglia da questo dolore, Remon ha organizzato la sua partenza, di nascosto: ci sarebbe stato un posto per lui, da qualche parte nel mondo, in cui avrebbe potuto studiare come tutti gli altri, diventare l’ingegnere dei computer:
Restare avrebbe voluto dire vivere in un paese in guerra. Dove hai sempre la sensazione che la libertà sia altrove. E che tu non la conoscerai mai. Avrebbe voluto dire pregare in silenzio, perché qualcuno può tentare, come succedeva troppo spesso, di farti cambiare la tua fede.
La storia della traversata di Remon è la storia di altre migliaia di persone senza volto e senza nome. Un viaggio così mostruosamente inumano, che andrebbe vissuto da chiunque, anche solo per cinque minuti, per comprendere cosa significa essere nella condizione di bestie da macello, prima di aprire la bocca ai giudizi.
Per rimanere in vita durante questo viaggio, Remon si è aggrappato al pensiero della sua famiglia, all’odore delle spezie in cucina, ai momenti di gioco con il fratello, alle stelle che il mare nascondeva, ai delfini, al gusto che quel nome evocava dentro la sua bocca: libertà.
Ma quella di Remon è anche la storia di una nuova vita, ritrovata in Italia, la storia di un’accoglienza e di persone capaci di accettare, di andare oltre il giudizio e la diffidenza, di aprire la propria casa a un estraneo. Perché l’unica certezza che abbiamo, al di là della fede declinata in sfumature differenti in base alla cultura che ci è capitata per nascita, è che siamo tutti figli di una sola specie, quella umana, tutti fratelli di un solo paese, quello bagnato dal medesimo mare. Tutti occhi con la stessa pupilla, la stessa iride, la stessa retina. Gli stessi occhi che vedono come sia facile morire, la sera, in quel lontano telegiornale, davanti alle nostre minestre calde. E basterebbe guardare veramente per capire che dietro tanto accanimento c’è il grido di una disperazione così violenta da aggrapparsi con tutte le forze all’unica vita che abbiamo.
Migranti italiani su un bastimento agli inizi del Novecento
Francesca Barra ha raccolto la coraggiosa testimonianza di Remon dando voce a un libro che parla con la semplicità di un bambino di quattordici anni. Da giornalista ha lasciato spazio alla sua storia, per scomparire e farsi megafono di un messaggio di speranza. La narrazione, semplice e lineare, accosta i ricordi di Remon all’esperienza del presente. Il lessico scorrevole, che si avvicina all’oralità dei racconti fatti dal vivo, accompagna il lettore in questo viaggio scarnificato da ogni disperazione e crudezza. Affrontando un tema così difficile come la traversata dei migranti, la Barra è riuscita a mantenere la pagina pulita, proprio come lo sguardo di una ragazzo di quattordici anni. E il merito maggiore è quello di aver dato il nome a una delle tante storie che sono rimaste sepolte sul fondo del Mediterraneo. Un libro che deve anche ricordare che la storia dei migranti è la nostra storia, la storia degli italiani.
Recensione di Jessica Chia
Francesca Barra - Il mare nasconde le stelle
150 pag., 14,90 € - Garzanti Libri
ISBN 9788811671541
Il sogno di Remon è cercare la libertà. Ma è solo un ragazzo di quattordici anni e da giorni è su una barca, infreddolito e affamato. Il mare è una distesa infinita davanti a lui. Il rumore della paura è assordante in quel silenzio. Eppure Remon non si sente solo. Guarda il cielo e affida i suoi sogni alle stelle. Non sa dove è diretto. Sa bene da cosa sta fuggendo. Dal suo paese, l'Egitto. Dall'odio e dalla intolleranza che hanno cambiato la sua vita all'improvviso. Perché Remon è cristiano e non è più libero di giocare per le strade, di andare a scuola, di pregare Dio. È stato costretto a scappare senza dire addio alla sua famiglia. Nei suoi occhi, troppo giovani per aver visto già tanto dolore, rivede i momenti felici con loro: gli abbracci di sua madre, le chiacchiere con suo padre, le risate con suo fratello. Tutto ora appare così lontano. Ora che il suo viaggio è finito e una terra sconosciuta lo accoglie: l'Italia. Remon non si aspetta più nulla dal futuro. Eppure i miracoli possono accadere. Perché basta poco per sentirsi di nuovo a casa. Basta l'affetto di amici inaspettati. Basta l'appoggio di insegnanti che credono in te. Basta l'impegno e la passione per lo studio. Remon giorno dopo giorno ritrova la speranza e il coraggio di sorridere ancora. Senza dimenticare il passato. Senza dimenticare da dove viene. Ma forte di una nuova scoperta: a volte anche dal mare si può volare.
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