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LETTERATURA - Passeggiate notturne, di Charles Dickens



Per la prima volta in Italia presentiamo il racconto di Charles Dickens Passeggiate notturne (1853) ambientato in una Londra onirica e sospesa tra il giorno e la notte, il sonno dei giusti e la follia dei sani.
In questa prosa autobiografica l’autore di Oliver Twist e David Copperfield, anticipando le peregrinazioni di Baudelaire a Parigi, racconta Londra attraverso lo sguardo di un giovane che vaga senza una meta per tutta la notte annotando ogni dettaglio con la precisione di uno scienziato, o di un poeta.
Passeggiate notturne è una delle due prose inedite tratte da Perdersi a Londra, in libreria per Mattioli 1885.


Alcuni anni or sono, una momentanea incapacità di prender sonno, imputabile ad
un’idea angosciante, mi fece camminare per le strade tutta la notte, per diverse notti di seguito. Il disturbo avrebbe potuto richiedere molto tempo per essere vinto, fosse stato languidamente patito a letto; invece, fu presto sconfitto dall’energico trattamento di alzarmi subito dopo essermi coricato, uscire e ritornare stanco all’alba.
In quelle notti, sviluppai un’invidiabile competenza, sia pure amatoriale, di cosa significhi essere un vagabondo. Il mio scopo principale era superare la notte; il suo perseguimento mi portò a simpatizzare con quelli che non pensano ad altro ogni notte dell’anno.
Era il mese di marzo e il tempo era umido, nuvoloso e freddo. Visto che il sole non sarebbe sorto prima delle cinque e trenta, la prospettiva notturna sembrava piuttosto lunga a mezzanotte e mezza, che è più o meno l’ora in cui la affrontavo.
L’irrequietezza di una grande città, il modo in cui si gira e si rigira prima di riuscire a chiudere occhio era uno dei primi intrattenimenti che la scena urbana offriva alla contemplazione di noi poveri vagabondi.

Durava due ore circa. Perdevamo un sacco di compagni quando le luci dei pub si spegnevano e i camerieri sbattevano fuori gli ultimi ubriaconi rissosi; poi, restavano pochi veicoli e poche persone. Quando eravamo molto fortunati, spuntava lo sfollagente di un poliziotto e capitava una zuffa, ma, sorprendentemente, la città elargiva solo di rado questo genere di diversivo.
Fatta eccezione per Haymarket, la zona peggio custodita di Londra, per i dintorni di Kent Street nel Borough e per una porzione del tratto della Old Kent Road, di rado la violenza interrompeva la pace.
Tuttavia, succedeva sempre che Londra, come se volesse imitare i singoli cittadini che vi abitavano, prima di spirare avesse convulsioni e spasmi di irrequietezza.
Quando tutto sembrava ormai tranquillo, bastava che passasse una sola carrozza, perché ad essa ne seguisse un’altra mezza dozzina.

Il vagabondo poteva anche notare che gli ubriachi sembravano magneticamente attratti l’uno dall’altro; e così, quando vedevamo un ubriaco barcollare davanti alle saracinesche di un negozio, sapevamo per certo che, nel giro di cinque minuti, ne sarebbe sopraggiunto un altro, sempre barcollante, per fraternizzare o per azzuffarsi.
Quando ci discostavamo dalla specie più comune di ubriacone, il bevitore di gin dalle braccia scarne, il volto gonfio e le labbra plumbee, e ci imbattevamo in un esemplare più raro, dall’aspetto più decoroso, dieci a uno che era vestito in abiti da lutto sporchi.
In questo la notte è come il giorno: la gente comune che entra inaspettatamente in
possesso di una piccola fortuna, altrettanto inaspettatamente entra in possesso di una gran quantità di alcolici.
Alla lunga queste tremolanti scintille si spegnevano, esauste – le ultime autentiche scintille di vita insonne trascinate da qualche tardivo venditore di focacce o di patate calde – e Londra sprofondava nel sonno. A quel punto il vagabondo si metteva ossessivamente in cerca di qualsiasi traccia di compagnia, di qualsiasi luogo illuminato, di qualsiasi movimento, insomma, di un segno qualunque che suggerisse la presenza di qualcuno ancora in piedi – o, almeno, sveglio – e con lo sguardo scrutava le finestre in cerca di una luce.
Camminando per le strade sotto la pioggia battente, il vagabondo, cammina, cammina e cammina, non vedeva altro che l’interminabile groviglio di strade, salvo quando, a qualche angolo, qua e là, c’erano due poliziotti che conversavano, o il brigadiere e l’ispettore che sorvegliavano i loro uomini. Di tanto in tanto, ma accadeva solo di rado, il vagabondo si accorgeva di una testa che spuntava furtivamente da un uscio a pochi metri da lui; nell’avvicinarsi, sorprendeva un uomo che stava in piedi ben diritto per rimanere nell’ombra, all’apparenza senza far nulla di particolare utilità sociale. Sotto una specie di incanto, e in un silenzio spettrale che si confaceva all’orario, il vagabondo e questo signore si guardavano da capo a piedi, poi, senza scambiarsi una parola, si separavano, con reciproco sospetto. Goccia, dopo goccia, dopo goccia, dai davanzali e dai cornicioni, e spruzzo dopo spruzzo, dalle condutture e dalle grondaie… in breve l’ombra del vagabondo si posava sulle pietre che lastricano la strada per Waterloo Bridge: il vagabondo, infatti, voleva avere una scusa economica per dire “Buona notte” al gabelliere e riuscire a cogliere un barlume del suo fuoco. Era confortevole vedere insieme al gabelliere un bel fuoco, un bell’impermeabile e una bella sciarpa di lana; anche la sua energica insonnia era un’eccellente compagnia, quando faceva tintinnare il resto del mezzo penny su quella sua scatola di metallo, come un uomo che sfidasse la notte con tutti i suoi tristi pensieri e a cui non importasse dell’arrivo dell’alba.

C’era bisogno d’incoraggiamento sulla soglia, perché il ponte era spaventoso. A quell’ora, l’uomo assassinato e fatto a pezzi non era ancora stato calato oltre il parapetto; era ancora vivo e, con tutta probabilità, dormiva tranquillo, per nulla turbato da sogni sulla fine che avrebbe fatto. Ma il fiume aveva un aspetto terribile: gli edifici sulle sponde erano avvolti in neri sudari e le luci riflesse sembravano avere origine nelle acque profonde, come se gli spettri dei suicidi le trattenessero per mostrare dove si erano tuffati. La luna e le nubi selvagge erano inquiete come una coscienza sporca in un letto sfatto e l’ombra dell’immensità di Londra sembrava galleggiare oppressivamente sul fiume.
Tra il ponte e i due grandi teatri non c’era che una distanza di poche centinaia di passi; così, i teatri diventavano la tappa successiva. Erano lugubri e bui all’interno, di notte, quei grandi pozzi asciutti, malinconici da immaginare, con le file di volti in dissolvenza, le luci spente e i posti a sedere completamente vuoti. Veniva da pensare che a quest’ora niente di loro fosse riconoscibile, tranne il teschio di Amleto. In una delle mie camminate notturne, mentre i campanili scuotevano il vento e la pioggia di marzo coi rintocchi delle quattro, varcai il confine di uno di questi grandi deserti e vi entrai. Con una fioca lanterna in mano, cercai a tastoni la strada, a me ben nota, per il palco e guardai nel vuoto al di là dell’orchestra, che sembrava una grande fossa scavata per un periodo di pestilenza. Una lugubre caverna dall’aspetto immenso, con i candelabri estinti come tutto il resto, e niente di visibile attraverso la foschia, la nebbia e lo spazio se non file di sudari. Il suolo ai miei piedi dove, l’ultima volta, avevo visto i contadini di Napoli danzare tra le viti, incuranti della montagna bruciante che minacciava di sommergerli, ora era in possesso di un robusto serpente di tubo flessibile, che giaceva guardingo in attesa del serpente di fuoco, pronto ad attaccarlo nel caso mostrasse la sua lingua biforcuta. Il fantasma di un guardiano, che portava con sé il debole cadavere di una candela, apparve in lontananza nel loggione e subito disparve. Battendo in ritirata nel proscenio, con la lanterna sopra la testa in direzione del sipario alzato – ormai non più verde, ma nero come l’ebano – il mio sguardo si smarrì in un cupo soffitto a volta, dove ancora s’intravedevano i labili resti di un relitto di vele e cordame. Per un attimo mi sentii proprio come un palombaro in fondo al mare. A quell’ora tarda della notte. in cui non c’era movimento per le strade, mi offrì un’opportunità di riflessione includere Newgate nel percorso e, toccandone la ruvida pietra, pensare ai prigionieri nel sonno; poi, dare un’occhiata alla portineria oltre il cancello appuntito e vedere il fuoco e la luce dei secondini di guardia sul muro bianco.
Non era un momento inopportuno neppure per soffermarsi davanti a quel famigerato portoncino chiamato “Debtor’s Door”, la porta meglio sprangata al mondo, – che per così tanti è stata la Porta della Morte. Ai tempi in cui persone attratte in città dalla campagna si misero a falsificare banconote da una sterlina, quante centinaia di poveretti di entrambi i sessi – molti dei quali del tutto innocenti – lasciarono un mondo impietoso e assurdo, penzolando proprio davanti alla mostruosa immagine del campanile della chiesa cristiana del Santo Sepolcro! Mi domando se in queste ultime notti il salone della Banca è infestato dagli spiriti di antichi direttori tormentati dal rimorso, o è tranquillo come questo degenerato Acèldama che è il carcere di Newgate.
Proseguire verso la Banca, rimpiangendo i bei tempi andati e lamentandosi dei mali presenti, si offriva come la logica prosecuzione e così risolsi di fare; girai intorno alla banca come un vagabondo dedicando un pensierino al tesoro che si trovava al suo interno; pensai anche al drappello di soldati che passava lì la notte scambiandosi cenni sopra il fuoco.

Poi andai a Billingsgate, sperando di trovare gente del mercato, ma poiché si rivelò essere troppo presto, attraversai il London Bridge e scesi vicino alla sponda sulla riva di Surrey, tra gli edifici della grande fabbrica di birra.
Lì c’era molto movimento e il vapore, l’odore di cereali e lo sferragliare dei grossi cavalli da tiro alle mangiatoie furono un’eccellente compagnia. Completamente rianimato da questa bella compagnia, ripartii con un altro spirito, stabilendo come mio prossimo obiettivo la vecchia prigione di King’s Bench di fronte a me e decidendo che, una volta giunto alle mura, avrei pensato al povero Horace Kinch e agli effetti dei tarli sugli uomini.
È un morbo molto curioso la sindrome del tarlo, difficile da riconoscere all’inizio. Aveva portato Horace Kinch dentro alle mura della vecchia prigione di King’s Bench per poi farlo uscire con i piedi davanti. Era un uomo promettente a vedersi, nel fiore degli anni, agiato, intelligente quanto bastava e pieno di amici. Aveva un matrimonio riuscito e figli sani e belli. Tuttavia, come alcune case o alcune navi di bell’aspetto, fu attaccato dai tarli. Il primo sintomo importante del parassita è una certa tendenza a nascondersi e a bighellonare, a indugiare ai crocicchi senza un chiaro motivo, a essere sempre diretti da qualche altra parte, a essere in giro piuttosto che in un luogo preciso, a non fare niente di tangibile, essendo comunque intenzionati ad adempiere una vasta gamma di doveri non tangibili l’indomani o il giorno dopo ancora. Una volta notata questa manifestazione del parassita, l’osservatore solitamente la assocerà a una vaga impressione, concepita o accettata come vera un tempo, che il paziente stia vivendo un po’ troppo intensamente. Avrà avuto a malapena il tempo di pensarci su e di concepire il terribile sospetto “tarli”, quando noterà un peggioramento nell’aspetto del paziente: una certa trascuratezza e un certo deterioramento, che non sono povertà, né sudiciume, né ubriachezza, né cattiva salute, ma semplicemente “tarli”. A ciò segue un odore simile a quello di acque fetide, al mattino; poi un atteggiamento piuttosto disinvolto rispetto al denaro; poi un odore più intenso di acque fetide, ad ogni ora del giorno; poi un atteggiamento piuttosto disinvolto rispetto ad ogni cosa; poi tremolio degli arti, sonnolenza, indigenza e disfacimento totale. Ciò che accade nel legno, accade anche negli uomini. Il disfacimento del legno progredisce ad un tasso di usura incalcolabile. Si trova un’asse affetta e l’intera struttura è segnata. Così è stato per il povero Horace Kinch, seppellito di recente grazie a una piccola sottoscrizione. Quelli che lo conoscevano quasi non fecero in tempo a dire: “Era così ben messo, florido, con tante prospettive innanzi a sé, e tuttavia, dicono avesse un piccolo tarlo!”, che, ecco, in un attimo era già tutto tarlato e polverizzato.
Da quel muro senza pertugi legato in quelle notti del mio vagabondare a questa storia fin troppo comune, scelsi di dirigere i miei passi verso il Bethlehem Hospital; in parte perché era di strada nel mio giro diretto a Westminster, in parte perché avevo in mente una strana fantasia notturna che avrei potuto perseguire più facilmente in vista delle sue mura e della sua cupola. E la strana fantasia era questa: i sani e i malati di mente non sono forse uguali di notte, quando i sani sognano? Tutti noi che ci troviamo fuori da questo ospedale e sogniamo, non siamo forse più o meno nella stessa condizione di quelli che vi si trovano dentro, ogni notte della nostra vita? Non siamo forse assurdamente convinti, di notte, così come loro lo sono di giorno, di frequentare re e regine, imperatori e imperatrici e persone illustri di ogni genere? Di notte non mescoliamo forse eventi, personaggi, tempi e luoghi, come i matti fanno di giorno? Non siamo forse turbati, talvolta, dalle nostre stesse incoerenze oniriche e non cerchiamo forse, preoccupati, di darne una spiegazione o di giustificarle, proprio come questi fanno a volte con le loro allucinazioni ad occhi aperti?
L’ultima volta che mi trovai in un ospedale come questo, un uomo afflitto da follia mi disse: “Signore, io volo di frequente”. Mi vergognai un po’ nel pensare che anch’io volavo… di notte.
Nella stessa occasione, una donna mi disse: “La regina Vittoria viene spesso a cena da me; Sua Maestà e io ceniamo in camicia da notte con pesche e maccheroni e Sua Altezza Reale, il Principe Consorte, ci fa l’onore di essere il terzo commensale, a cavallo e in uniforme da feldmaresciallo.”
Potevo forse trattenermi dall’arrossire, ricordandomi gli incredibili ricevimenti reali a cui io stesso avevo partecipato – di notte – e le bizzarre vivande che avevo immaginato in tavola e il mio strano modo di comportarmi in quelle distinte circostanze? Mi meraviglio che il grande maestro che tutto sapeva, quando chiamò “sonno” la morte della vita quotidiana, non abbia anche chiamato “sogno” la follia della normalità quotidiana.



""Plenilunio a Parigi"" di Curzio Malaparte
""Blude Runner"" di William Burroughs
""L'estraneo e la bellezza"" di Piero Colaprico     


22 luglio 2008  

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