“Viaggiare è una scuola di umiltà, fa toccare con mano i limiti della propria comprensione, la precarietà degli schemi e degli strumenti con cui una persona o una cultura presumono di capire o giudicano un’altra.”
Ora che dal libro di Claudio Magris è stata tratta una delle tracce dell'esame di maturità 2013, vi riproponiamo la recensione di questa importantissima opera.
Una raccolta di brevi scritti di viaggio, ricordi e appunti che vanno dal 1981 al 2004, interessanti in sé, ma illuminati da una prefazione che crea nel lettore una straordinaria consapevolezza: quella di avere di fronte un testo importante, una chiave di volta per la comprensione non solo dell’autore, ma anche del proprio modo di stare nel mondo e del proprio osservare.
Mi soffermo in particolare sulla Prefazione perché gli scritti che compongono il volume assumono particolare significato, come si è detto, proprio grazie alle 28 pagine iniziali.
Importante è il nesso che Magris subito dà al lettore come spunto di riflessione: c’è una stretta connessione tra l’idea di viaggio e la scrittura, soprattutto oggi in cui si sente con maggior forza l’esigenza di un confronto con la realtà. Inoltre scrittura e viaggio significano sempre separarsi da qualcosa per scoprirne un’altra, allontanarsi da una certezza per avvicinarsi a una meta sconosciuta, a un’idea, a se stessi.
Vari sono i modi del viaggiare, ma fondamentale è la distinzione tra quello classico e quello moderno.
Nell’""Ulisse"" Joyce mostra l’ultimo esempio del primo: l’andamento è circolare, il ritorno è a casa, anche se proprio quell’esperienza ha modificato il significato che si attribuisce alla casa stessa. Il moderno viaggiare invece ha un andamento rettilineo (“una retta che avanzi pencolando nel nulla”) e diventa un fuggire, un rompere limiti e legami, lo scoprire la precarietà del mondo e quella del viaggiatore stesso e così l’io inizia a disgregare la propria identità e produrre un altro uomo, “un cammino senza ritorno, alla scoperta che non c’è, non può e non deve esserci ritorno”, che non si può e non si deve essere gli uomini di prima: è l’uomo di Musil, è l’”oltre uomo” di Nietzsche, nel significato vero di questa definizione.
Quando ci si mette in viaggio si parte con tutto il carico delle proprie idee e delle proprie sicurezze, ma le situazioni, le necessarie digressioni, il nuovo rapporto col proprio corpo, con la precarietà dell’ambiente sempre modificato e modificabile rende il viaggiatore poco assertivo, ben capace di mediare, lo induce a un inibente timore di offendere l’interlocutore (bellissima a questo proposito la pagina dedicata al soggiorno in Iran).
Lo scrittore cerca di capire il mondo: anche il viaggiatore Magris cerca di capire i tanti mondi che gli si propongono, dai noti e familiari Paesi dell’est o del nord europeo, alla Cina, all’Australia, alla vicina Spagna.
Viaggio come momento di ricerca, possibilità di un più profondo possesso del presente, libertà dalle piccole grane della quotidianità che imbrigliano l’anima chiudendola all’esperienza degli altri: “Dante sapeva che l’amore per Fiorenza, appreso dall’acqua dell’Arno, doveva condurlo a sentire che la nostra patria è il mondo, come ai pesci il mare”.
di Grazia Casagrande
Il brano scelto per la prima traccia della prova di maturità 2013.
Non c’è viaggio senza che si attraversino frontiere – politiche, linguistiche, sociali, culturali, psicologiche, anche quelle invisibili che separano un quartiere da un altro nella stessa città, quelle tra le persone, quelle tortuose che nei nostri inferi sbarrano la strada a noi stessi. Oltrepassare frontiere; anche amarle – in quanto definiscono una realtà, un’individualità, le danno forma, salvandola così dall’indistinto – ma senza idolatrarle, senza farne idoli che esigono sacrifici di sangue.
Saperle flessibili, provvisorie e periture, come un corpo umano, e perciò degne di essere amate; mortali, nel senso di soggette alla morte, come i viaggiatori, non occasione e causa di morte, come lo sono state e lo sono tante volte.
Viaggiare non vuol dire soltanto andare dall’altra parte della frontiera, ma anche scoprire di essere sempre pure dall’altra parte. In Verde acqua Marisa Madieri, ripercorrendo la storia dell’esodo degli italiani da Fiume dopo la Seconda guerra mondiale, nel momento della riscossa slava che li costringe ad andarsene, scopre le origini in parte anche slave della sua famiglia in quel momento vessata dagli slavi in quanto italiana, scopre cioè di appartenere anche a quel mondo da cui si sentiva minacciata, che è, almeno parzialmente, pure il suo.
Quando ero un bambino e andavo a passeggiare sul Carso, a Trieste, la frontiera che vedevo, vicinissima, era invalicabile, – almeno sino alla rottura fra Tito e Stalin e alla normalizzazione dei rapporti fra Italia e Jugoslavia – perché era la Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due. Dietro quella frontiera c’erano insieme l’ignoto e il noto. L’ignoto, perché là cominciava l’inaccessibile, sconosciuto, minaccioso impero di Stalin, il mondo dell’Est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato. Il noto, perché quelle terre, annesse dalla Jugoslavia alla fine della guerra, avevano fatto parte dell’Italia; ci ero stato più volte, erano un elemento della mia esistenza. Una stessa realtà era insieme misteriosa e familiare; quando ci sono tornato per la prima volta, è stato contemporaneamente un viaggio nel noto e nell’ignoto. Ogni viaggio implica, più o meno, una consimile esperienza: qualcuno o qualcosa che sembrava vicino e ben conosciuto si rivela straniero e indecifrabile, oppure un individuo, un paesaggio, una cultura che ritenevamo diversi e alieni si mostrano affini e parenti.
Alle genti di una riva quelle della riva opposta sembrano spesso barbare, pericolose e piene di pregiudizi nei confronti di chi vive sull’altra sponda. Ma se ci si mette a girare su e giù per un ponte, mescolandosi alle persone che vi transitano e andando da una riva all’altra fino a non sapere più bene da quale parte o in quale paese si sia, si ritrova la benevolenza per se stessi e il piacere del mondo.
Il viaggio come "persuasione" ovvero come capacità di possedere la propria vita essendo capaci di goderne con pienezza ogni istante. Il viaggio al di là delle colonne d'Ercole e il viaggio attorno alla propria stanza. Il viaggio di formazione alla ricerca dell'identità e il viaggio che fa scoprire al viaggiatore la propria fragilità. Claudio Magris racconta vent'anni di viaggi, dalla Mancia di Don Chisciotte alla Pietroburgo di Raskolnikov, dai castelli di Ludwig di Baviera alla scrivania di Arnold Schönberg, dal Grande Nord al Grande Sud, e offre un affascinante percorso tra terre, popoli, libri, uomini.
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