Una storia d'amore che riemerge, dolorosa, dal passato. Ma per Filippo Linati, provato da una malattia che ha rischiato di ucciderlo, è come non fossero passati affatto: Isabella è sempre stata nei suoi pensieri.
Componendosi di uno scambio di email che disegna in filigrana caratteri e situazioni, ""Un giorno, altrove"" è un esordio speciale, del quale abbiamo voluto parlare con l'autore.
Federico Roncoroni vanta almeno un primato: potrebbe essere uno degli autori più letti e meno conosciuti d’Italia.
Già, perché questo colto, raffinato scrittore che esordisce a più di sessant’anni come romanziere, può contare in realtà su una proficua, lunghissima carriera nell’editoria scolastica: grammatiche, antologie, manuali… tutti quei libri che passano fra le mani di migliaia e migliaia di ragazzi, insomma, senza che il nome del loro autore venga mandato a memoria.
Ma uno stile che solo può maturare amando profondamente i libri e la lettura non s’improvvisa: e infatti, nel romanzo “Un giorno, altrove” le passioni di Roncoroni si sentono tutte.
Così, dopo anni passati a commentare le altrui fatiche letterarie (Roncoroni è fra l’altro curatore del fondo Piero Chiara), il nostro scrittore ha avvertito l’urgenza di raccontare qualcosa di sé.
Sì, perché la storia che, in forma epistolare, dà forma a “Un giorno, altrove”, contiene più di un elemento autobiografico.
Il protagonista Filippo Linati, dopo aver vissuto l’ora terribile di una malattia che avrebbe potuto ucciderlo, riceve una mail da Isabella, donna che ha amato sette anni prima e della quale, da allora, non ha più notizie.
Il carteggio, del quale noi conosciamo solamente le mail spedite da Filippo a Isa, si articola con i tempi e le modalità di uno scambio di email, e contamina quindi un formato letterario che data almeno alle “Relazioni pericolose” di Choderlos de Laclos con elementi di contemporaneità che non possono che far piacere.
Abbiamo voluto fare quattro chiacchiere con Federico Roncoroni a proposito del suo romanzo, ma non solo. Il risultato della nostra conversazione lo potete leggere nelle righe che seguono.
C’è una virgola, nel titolo, fra le parole “Un giorno” e “Altrove” che sembra assolutamente non casuale… ci vuol dire qualcosa di più?
È un’espressione che ha usato Isa, protagonista del libro.
Fissando, un appuntamento per un altro giorno, in un altro posto.
Naturalmente la virgola non segna solo una pausa, ma segna anche la presenza di due piani diversi.
Un tempo futuro, in un luogo che non è questo.
A proposito di Isabella, che è una figura tratteggiata in absentia…
Sì, è un personaggio in absentia che finisce per essere più presente di quelli che invece sono dentro il romanzo.
Tanto vivo è il ricordo che Filippo Linati serba di questo amore per lei, che diventa uno dei perni del romanzo che lei ha scritto…
Sono d’accordo con lei: la scommessa è stata quella di condensare tutto nelle risposte.
È un personaggio che vive attraverso il ricordo che ha lasciato e la rievocazione che Filippo ne fa.
Come presenterebbe Filippo Linati a un lettore che non lo conoscesse ancora?
Una premessa: il mio romanzo è stato letto da molti critici, e da molti lettori, facendo un’indebita confusione fra autore, narratore e protagonista.
Di conseguenza è nato un processo di identificazione che ha portato a sovrapporre queste tre figure, che in ogni momento della narrazione andrebbero tenuti ben distinte.
Filippo Linati, comunque, è un intellettuale di una certa età che ama la lettura, i libri e le donne.
Non si nega nessuna di queste tre cose, ma ha subìto una battuta d’arresto, nella sua esistenza, a causa di una imprevedibile e grave malattia che l’ha ribaltato come un guanto, mettendolo di fronte alle cose ultime.
È tornato a una vita quasi normale, ma nel timore che la malattia potesse ritornare, ha dovuto ricollocarsi nei confronti della vita e di se stesso.
Avendo fatto una capatina nell’aldilà, ed essendo tornato indietro, l’uomo che non credeva assolutamente in niente che non vedesse o non toccasse, si è trovato a fare i conti con il trascendente.
In termini terra terra, potremmo dire che si pone domande come ""da dove veniamo?"" e ""dove andiamo?"".
La forma che lei ha scelto di dare al suo romanzo è quella del romanzo epistolare. La tradizione del romanzo epistolare, naturalmente, è lunghissima. Ma un’osservazione che viene spontanea è che – da quando esistono le email – è cambiata la tempistica degli scambi epistolari.
Ah, sì, infatti! nel settecento, ai tempi delle “Liaisons”, ma anche ai tempi della posta più recente, sempre che fosse scritta su carta e poi spedita, passavano giorni o settimane, prima di ricevere una risposta alla lettera che si era inviata.
Adesso tutto avviene in tempo reale, e la scrittura è quasi una telefonata.
C’è anche da dire che la mail ha raffreddato il tipo di comunicazione, perché la lettera conservava qualcosa di umano, attraverso il ductus della scrittura – non mi spingo fino alle lettere romantiche delle fanciulle che versavano lacrime sulla carta in modo che l’innamorato ne avesse testimonianza – ma insomma, è diventato certamente un mezzo più freddo.
Lei è curatore del fondo intitolato a Piero Chiara. Ci vuol dare una riflessione sul tipo di intellettuale che è stato, oltre che un ricordo del suo amico?
Io sono stato molto amico di Chiara, anche se non sono mai riuscito a dargli del tu.
L’ho conosciuto che avevo 23 anni, e lo incontrai quando avevo già una cattedra al Liceo di Como, ma non era il lavoro che volevo fare.
Così, quando ho cominciato a frequentare Piero Chiara, ho scoperto tutto un mondo di cui ignoravo l’esistenza.
Facevamo lunghi viaggi in macchina, passeggiavamo… a volte andavamo in giro per cimiteri, nel varesotto o nel Canton Ticino, per cercare nomi sulle tombe che lui avrebbe poi usato nei suoi romanzi.
Tutto era un’esperienza: ogni volta che passavo del tempo con lui, mi accadeva che nei giorni seguenti avessi una capacità di argomentazione, e una lucidità mentale uniche…
Non so se ha presente la sensazione di cui sto parlando: a me succede quando leggo l’Ariosto, ad esempio, e nei giorni successivi vado avanti a ragionare in ottave. Conosce questa sensazione? M'imbevo, e poi mi devo liberare perché se no vado avanti in endecasillabi... Attenzione: non sto dicendo che faccio poesia, eh? È un ritmo.
Chiara mi ha lasciato questa lucidità, oltre alla responsabilità della sua opera, edita e inedita, con l’incarico di tener viva la sua memoria, e di pubblicare a distanza di tempo gli inediti che ritenevo opportuno pubblicare, cosa che ho fatto nei vent’anni che sono trascorsi dalla sua morte.
Vede degli eredi, in giro?
Direi che di Piero Chiara ce n’è stato uno.
Gli altri non hanno in comune praticamente nulla, con lui.
Il fatto che vivano magari sul lago, e scrivere della gente che lì vive, non li fa diventare prosecutori dell’opera di Chiara...
... stiamo parlando di Andrea Vitali, giusto per non fare nomi?
Ecco, appunto. Vitali per me è un ottimo scrittore, e io gliel’ho sempre detto che il paragone con Chiara non gli giovava: perché sono casi completamente diversi, a partire dalle provincie di cui si racconta.
Certo, la provincia in realtà è sempre uguale, perché i vizi, i pettegolezzi, gli adulteri, i piccoli giochi di potere sono sempre gli stessi.
Ma Chiara è stato un narratore – grande o piccolo che sia il posto che occupa nel Novecento, e io ritengo che sia grande, non solo per ragioni di amicizia – che ha saputo interpretare la provincia italiana con una prosa nitida, pulita, semplice, frutto di una ricerca espressiva strenua (come dimostrano i manoscritti di cui sono depositario).
Chiara resta comunque un unicum, insomma.
Il suo realismo, era un realismo ironico…
Immagini: qualche anno fa, nel corso di un convegno a Luino dissi di Chiara più o meno le stesse cose che sto raccontando a lei.
Dietro di me c’era un ritratto di Piero Chiara appeso alla parete.
Mentre stavo dicendo queste cose, appunto, il ritratto cadde fragorosamente a terra, non so se in segno di approvazione o disapprovazione… ma lo possiamo vedere come un primo segno di quella irrazionalità che fa capolinea nella vita, quella cui accennavo prima.
D’altra parte lei ha dimestichezza con l’irrazionale, come dimostra anche il suo rapporto con i gatti…
Sì, io dico sempre che sono poligamo ma monogatto. Ho avuto per sedici anni un gatto, e quel rapporto mi ha dato molto benessere ma anche un grande dolore.
Dopo quell’esperienza così totalizzante, non ho più avuto il coraggio di mettermi alla prova con un altro gatto.
Considero quel gatto depositario di tutto il mio amore per i felini.
Dica la verità, non se l’aspettava il successo che il suo libro sta riscuotendo un po’ ovunque…
Guardi, io mi sono divertito un mondo a scriverlo.
Non ho avuto difficoltà a trovare un editore, ma poi mi è venuta una paura che non finiva più.
Nella vita ho avuto una fortuna straordinaria, in mezzo ad altre cose che invece tanto fortunate non sono state.
Però ho potuto fare il lavoro che volevo: scrivere.
Quando ho cominciato a pubblicare, mi sono persino stupito che mi pagassero (cosa che comunque mi sono guardato bene dal dire ai miei editori).
Mi sono comunque trovato di fronte a un mondo sconosciuto: i famosi lettori mi suscitavano una paura tremenda.
Paura di essere frainteso, paura di non piacere… cosa che alla mia età fa anche un po’ senso! Perché, insomma, mi si potrebbe chiedere “Ma chi te l’ha fatto fare?”
La lingua la padroneggiavo bene, e potevo fare un intarsio di registri espressivi. Ma insomma, un’ansia… l’ansia del modo in cui il libro sarebbe stato recepito. Non so trovare una descrizione adeguata.
Non so: lei cosa ne pensa? Come la chiamerebbe, questa sensazione?
Forse è quella che Peter Handke chiamava “Prima del calcio di rigore”.
Ecco, sì. Prima del calcio di rigore.
Per le foto di Federico Roncoroni © Carlo Pozzoni
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