Le interviste di Wuz.it

Joyce Carol Oates e i paradossi della scrittura


Abbiamo incontrato Joyce Carol Oates, l’autrice ha appena ricevuto il premio Fernanda Pivano, riconoscimento istituito con l'intento di promuovere autori americani in Italia. Nel corso della Milanesiana 2010 - edizione numero XI - la scrittrice, dopo aver partecipato alla serata di premiazione, è stata invitata a prendere parte al dibattito sui paradossi della scrittura. Il moderatore, Dino Messina, collaboratore del Corriere della sera, ha dialogato con lei e Sergio Claudio Perroni, curatore della traduzione di Una brava ragazza, recententemente pubblicato, e di Blonde (uscito nel 2007), entrambi editi da Bompiani.

Uno dei temi su cui lei insiste molto è quello dell’adolescenza... come mai?

Io scrivo di un’ampia gamma di personaggi, l’adolescenza è uno degli argomenti che tratto. Ne scrivo perché mi indentifico negli adolescenti, in questa loro incessante ricerca, questo loro essere sempre dubbiosi, a volte scettici, ma anche nello stesso tempo idealisti e pieni di speranze.
In quella fase le emozioni fioriscono, possono esplodere liberamente, quando invecchiamo invece tendiamo ad entrare in compromesso con la società, non dico che diventiamo ipocriti, ma semplicemente ci adattiamo alla società, non siamo così vicini alle nostre emozioni come lo potrebbe essere un teenager, perché si stratificano vari aspetti su di noi, questo ci porta a cambiare, a essere meno entusiasti.


Tante delle sue pagine sono dedicate alla box. Ci può raccontare la ragione questa sua passione?

La boxe, soprattutto nel passato, era lo specchio della società americana ed io, da scrittrice americana, interessata ai vari aspetti della società, non potevo non trattare l’argomento. In secondo luogo questo sport è stato per me un modo per osservare la cultura attraverso una delle sue forme più popolari. Sono stata introdotta alla boxe da mio padre, come capita spesso alle ragazze, e per me rappresentava, prima di tutto una maniera per esplorare un mondo prettamente maschile. Avevo il mio mondo, quello femminile, che condividevo con mia madre, e c’era poi quello maschile, che non conoscevo... ero molto giovane e non ero ancora femminista, la boxe rapprensentava per me una dimensione lontana dalla mia e perciò, ai miei occhi, appariva come qualcosa di estremamente romantico, o almeno questa era la percezione iniziale, guardando più da vicino poi questo romanticismo svaniva, mostrando quella che era la sua reale essenza.

Passando al nostro tema, i paradossi della scrittura, un paradosso è ciò che contraddice l’opinione corrente, che cosa significa per lei come scrittrice questo andare contro l’opinione corrente?

In realtà non penso ai paradossi quando scrivo, emergono naturalmente durante la stesura, o una volta terminata... quando si esplora una personalità umana, come fa uno scrittore, non si arriva al riduzionismo, alla semplificazione della realtà, ma si va in profondità, si arriva a percepire quella che è la complessità dell’animo umano ed è a quel punto che emergono i paradossi. Quello che cerco di fare io con la mia scrittura è di migliorare, di enfatizzare l’esperienza umana, cercando di essere oggettiva nei confronti di quella che è la vita, di quello che noi sperimentiamo, evitando le semplificazioni della società reale, in modo particolare quella di oggi.

Rispetto invece all’edizione italiana, signor Perroni, potrebbe raccontarci qualcosa della sua esperienza nel tradurre l’opera di Joyce Carol Oates?

Ho tradotto da poco Una brava ragazza, suo ultimo lavoro, devo però dire che sono stato folgorato dalla traduzione di Blonde. È molto raro che un traduttore si lasci trascinare da un romanzo su cui sta lavorando, è davvero  insolito, in tanti anni di attività mi sarà capitato due o tre volte. Parlando di questo romanzo mi ricordo che Genna scrisse che, se non fosse stato opera di un’autrice straniera, sarebbe stato uno dei migliori romanzi italiani degli ultimi 20 anni... direi che è anche questo un paradosso... consiglio la lettura di questo romanzo a quei pochi che non conoscono Joyce Carol Oates, perché è un racconto che va oltre il paradosso della scrittura, perché nel leggere si ha la sensazione paradossale di vedere immagini, di sentire, non musica, ma suoni e non per il fatto che utilizzi uno strumento semplice - quello di parlare di Marilyn Monroe - potrebbe in realtà parlare di chiunque altro, il personaggio è così vivo e forte che più che un’esperienza è un’emozione, come traduttore mi sono trovato a leggero ad un certo punto...


l'autrice



16 luglio 2010 Di Angela Contigiani

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