Gli appunti scuola di Wuz.it

LETTERATURA - Intervista a Daniel Pennac, l'alunno “somaro”

Stefano Salis dialoga con Pennac su Diario di scuola al Festivaletteratura di Mantova 2008

  • L'inchiesta di Wuz - La scuola è il futuro dell'Italia >>>
  • Leggi l'intervista a Pennac sulla scuola e il suo futuro


Stefano Salis presenta il libro

Diario di scuola è un libro che ha due caratteristiche: è un racconto autobiografico dell’avventura scolastica di Pennac, un “somaro di talento”, così lo possiamo definire, che si è autocondannato passando dall’odio per la scuola all'insegnamento per venti, venticinque anni. Però è anche una riflessione su cosa è diventata la scuola, su come funzionano i meccanismi che stanno alla base dell’apprendimento, visti con il buonsenso e la pratica dell’essere stato uno studente particolare, cioè uno studente somaro. 
Già dall’inzio del libro si capisce il tipo di avventura che ha vissuto lo scolaro Pennac, il professore Pennac, lo scrittore Pennac. Un'avventura scritta con uno stile che è suo e veramente solo suo, e chi ha letto i suoi precedenti romanzi riconosce da lontanto. E questo è un pregio: di qualunque cosa scriva Pennac, ha la capacità di farlo emergere dalla pagina.


Quanto è forte il pregiudizio, la tragedia di andare male a scuola, se persino le persone che ci amano di più, addirituttura la mamma, a anni di distanza e con le prove chiarissime dell’avvenuto successo del figlio, insiste a chiedere se prima o poi se la caverà? Quanto fa male essere somari?

La domanda investe direttamente il tema centrale di questo mio libro, che è il tema del dolore. Ma non soltanto del bambino, dell’alunno, l’allievo che va male, sente e prova vergogna, prova paura, non riesce a costruire se stesso, ha dunque un gravissimo deficit di identità, ma che sente anche che lui fa paura a sua madre e a suo padre; sente che sta ledendo, sta ferendo il senso di identità del suo professore che non riesce a farlo progredire.
Allora tutto questo accumulo di paure è prodotto dalla paura inziale che è appunto quella del bambino, dell’allievo, quella che lui prova la prima volta che in classe non riesce a rispondere alla domanda del maestro.


Quando è diventato professore, questo suo essere stato somaro, quanto l’ha aiutata? Quanti ragazzi ha ripescato, e come? Quanti invece ne ha lasciati affondare?

Tutto sta nella conoscenza supplementare, perché io cosa avevo tra le mani? Avevo il corpus dei miei studi universitari, la mia cultura, laurea, specializzazione e abilitazione, poi di colpo però ti trovi seduto in cattedra davanti a una classe e in questa classe ci sono naturalmente alcuni allievi molto brillanti, ci sono i mediani e poi i somari, gli asini. Allora, quello che mi ha aiutato è stata la conoscenza supplementare che io avevo rispetto al resto del corpo insegnante della mia scuola, per lo più formato da ex bravi allievi. Cos’era questa conoscenza supplementare? Era il conoscere la natura di ciò che prova il somaro, di ciò che prova l’asino, e questa conoscenza io la reputo assolutamente indispensabile se si vuole insegnare a tutti. Chiaro, se ti prefiggi di mandare avanti soltanto quei dieci che già son bravi, nessun problema, ma se tu pensi che il tuo dovere di insegnante è quello di portare avanti tutta la classe, di insegnare a tutti, allora questa conoscenza è veramente, assolutamente indispensabile.


Allora diventa un problema dei professori, che magari non hanno avuto, la “fortuna” di essere somari, che non si rendono conto di questa sofferenza e non hanno questa conoscenza indispensabile supplementare?

È una fortuna non essere stati somari, io avrei tanto voluto non essere stato quella schiappa che sono stato e da professore, quando insegnavo, adoravo gli alunni bravi, per la semplice ragione, se non per altro, che sono straordinariamente riposanti: vedi questi quattordicenni con lo sguardo pieno di scintille... Però quando poi uno bravo decide di fare il professore, deve passare un concorso magistrale, un concorso di abilitazione; esiste in Italia così come esiste la Agregación in Francia. Allora secondo me, bisognerebbe, durante la varie prove per l’esame di abilitazione all’insegnamento, inserire un’ultima e suprema prova.
Arriva da me che sono l’esaminatore l’allievo Stefano Salis con tutte le sue pagelle fin dalla più tenera età, e io dico: «Bene Salis, lei vuole dunque diventare professore, mh, bene! Vedo che lei ha sempre avuto degli ottimi voti in italiano, chiaro che la letteratura italiana la conosce bene, mh bene. Ma, dica, anzi dimmi un po’ Stefano, vedo che a un certo punto, intorno all’età di quattordici, sedici anni mi porti delle pagelle dove matematica, primo trimestre 3, secondo trimestre 2, terzo trimestre 4. L'anno dopo 2, 3, 4 nell’ordine. Poi l’anno dopo questi voti riprendono di colpo, che cosa ti è successo? Allora adesso tu, per cortesia, mi fai questo compito, questa è l’ultima prova. Vorrei che ritornassi, ripensassi alle cause di questa caduta e di questa ressurrezione in matematica; vorrei che tu cercassi di ricordare ciò che allora hai profondamente sentito dentro te stesso. E tre, vorrei che tu mi esponessi quali sono stati i mezzi grazie ai quali hai operato questa gloriosa ressurrezione in matematica. Per questa prova non dispondi né di una né di due ore, disponi di una settimana, perciò ora vai a casa con un bel quinterno di fogli protocollo e tra una settimana mi torni per favore con un minimo di venti pagine di riflessioni sui motivi della caduta e della ressurezione e la spiegazione di ciò che hai sentito dentro di te».
Ecco, penso sia indispensabile per imparare a insegnare tornare sulle proprie sconfitte, sulle proprie rotte scolastiche; questo serve, a mio modo di vedere, e anzi è indispensabile per alimentare la capacità di chiunque di insegnare agli altri.


Volevo chiedere qualcosa a proposito dei suoi professori, quelli che ha incontrato e che l’hanno salvata con degli stratagemmi davvero particolari, come il professore di italiano che dice ""basta col presentarmi i soliti compiti, comincia a scrivere un romanzo"".
Questa ricetta è andata bene per lei, ma per altri studenti può non funzionare, perché ogni caso è unico alla fine...


Domanda difficile… perché quel professore ha fatto così con me, ma con altri si è comportato in modo diverso. Quello per me era un professore che aveva capito bene che una classe non è un reggimento che un professore deve far marciare tutto quanto al passo. D’altra parte c’è stata una giovane collega che mi ha detto: “la classe non è un reggimento, gli allievi non sono tutti uguali, la classe è un’orchestra fatta di tanti strumenti, tanti quanti individui sono seduti in quella classe e con tutti questi strumenti, dunque con tutti questi individui, un professore ha il dovere di creare un’armonia, con tutti”. Quel professore l’ha saputo fare. Non ha avuto una visione prospettica e meno ancora profetica; lui ha visto benissimo chi aveva davanti: aveva davanti un piccolo bugiardo, uno che inventava spiegazioni fantasione per i compiti non fatti, per le lezioni non studiate e pur di giustificarsi andava a raccontare che era esplosa la caldaia mentre stava facendo i compiti. Quindi per prima cosa ha pensato “Mh, con questo non c’è niente da fare”, seconda cosa ha avuto l’intuizione di farmi immaginare un racconto lungo, addirituttra un romanzo. Capiva che cos’è l’invenzione letteraria, capiva che io la mia capacità o la mia potenzialità di invenzione letteraria l’avevo investita sino a quel momento soltanto nella menzogna, ma mi ha proposto di investirla nella creazione; un’intuizione pedagogica, direi, non un pistolotto morale “guarda che le bugie non si dicono”, non delle minacce “guarda che se seguiti così non arriverai da nessuna parte”. Ha semplicemente trasformato questa mia pecca, questo mio difetto, questa mia autodifesa, questo mio bisogno di compensazione in un lavoro positivo dell’immaginazione.  

La seconda parte della domanda di Stefano riguardava che cosa fare con gli allievi con cui non si riesce a sfondare. Ma non ringrazio Stefano Salis della seconda parte della domanda perché ci parla di una tragedia e queste tragedie ti lasciano delle tracce dentro come insegnante. Io ho insegnato per un quarto di secolo, venticinque anni, e avrò avuto dai 2500 ai 3000 alunni, praticamente solo alunni con difficoltà di apprendimento. Tra loro ogni tanto c’era il ragazzo, la ragazza che per qualche ragione che mi era del tutto ignota, che non riuscivo a scandagliare, non riuscivo a coinvolgerli, a tirarli dentro nel gioco della scuola. Un insegnate con dell’esperienza, questi allievi li riconosce al volo: quello, quella, devo riuscire a tirarlo fuori; da che? Dal rifiuto della scuola, dell’apprendimento, che in fondo è una non accettazione di se stesso. E cerchi con tutti i mezzi di tirarlo fuori, ma con quel singolo, quella singola non riesci. Non sono numerosi, però ce ne sono e ti lasciano dentro un segno, io ci penso ancora. Che soluzione avrei potuto adottare per lui o per lei? Nella vita ho avuto paura, quella vera, quella brutta, due o tre volte e ci sono stati due o tre dei miei allievi per i quali ho pensato ""questo lo trovo sul giornale, nella cronaca nera, va a finire che si fa ammazzare o ammazza qualcuno"". E questa paura è una paura che direi prospettica, ma è molto reale: sulla spiaggia vedi uno che annega, ti tuffi con tutte le migliori intenzioni e non ce la fai, non riesci ad acchiapparlo, non riesci a tirarlo fuori, non lo ripeschi, ti lascia il rimorso dentro per tutta la vita.


È una bella risposta, è evidente, però fa il contraltare con una lamentela tipica che invece Pennac evidenzia poi nel libro, per cui il professore di turno dice “ma non siamo diventati professori per questo, per salvare della gente, siamo qua per insegnare”, qualunque cosa voglia significare.
Perché si va a insegnare alla fine? Quale molla deve esserci? Lo dico perché alla fine Pennac scrive: ""penso che per insegnare, per avere una pedagogia un po’ più umana, ci voglia amore per questa professione”, il che è fuor di dubbio, ma forse non basta neanche quello.


Di tutto ciò che si dice sull’insegnamento, che cosa conta veramente? Una parola sola: che cosa dice il professore, il tipo di professore cha ha citato Stefano Salis, “Ah, io non sono fatto per questo, non insegno mica per questo”, no, ma questo è la classe, questo oggetto è la classe, così come essa è, fatta di trenta, trentadue, trentaquattro allievi a seconda dei risparmi, delle misure economiche che vuole adottare il ministero. Che cos’è questa classe? È un pezzo della realtà, è la realtà delle nuove generazioni, è la realtà della nostra società, non è un sogno, non è un incubo, sono trenta giovani persone, trenta allievi dei quali ce ne saranno forse dieci che sono dei somari. Quei dieci là, stanno dentro un pezzo della realtà, allora delle due l’una: o prendi il reale, prendi la realtà così com’è e decidi che è tua resposabilità migliorarlo per quanto puoi, o altrimenti rifiuti un pezzo del reale e decidi consapevolmente di fare l’insegnante autistico.
E uno dei modi per rifiutare in blocco questo pezzo di realtà (lo sento nel mio Paese, l’ho sentito ridire anche in Ialia), per riufiutare quei dieci somari che hai nella classe di trenta, è dire “tutto questo è il prodotto del Sessantotto”, una boiata infantile da vecchi bacucchi che si rifiutano di crescere: fa spavento.



A cura di Paola Pedrinazzi


03 novembre 2008  

La posta della redazione

La posta della redazione

Hai domande, dubbi, proposte? Vuoi uno spiegone?
Scrivi alla redazione!

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto al carrello devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Per poter aggiungere un prodotto alla lista dei desideri devi essere loggato con un profilo Feltrinelli.

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto al carrello correttamente

Chiudi

Il Prodotto è stato aggiunto alla WishList correttamente