Le interviste di Wuz.it

Etgar Keret: la scrittura è il luogo della libertà

Etgar Keret è scrittore, sceneggiatore e regista (con il film Meduse, girato insieme alla moglie, ha vinto il premio Caméra d’Or al Festival di Cannes).
Dalla letteratura al cinema la sua penna e il suo sguardo sono tra i più taglienti e anticonformisti della scena israeliana e non solo.
Arriva nelle librerie All’improvviso bussano alla porta, un’altra occasione per entrare nel mondo surreale di Keret e viaggiare con la fantasia. Lo abbiamo seguito al Festivaletteratura di Mantova, dove ha presentato la sua ultima raccolta di racconti intervistato da Giulio Busi.

Il racconto: alcune linee della narrazione breve contemporanea
All’improvviso bussano alla porta


G.B.: Il racconto Nel paese delle bugie (il secondo di All'improvviso bussano alla porta, ndr) è una storia metaforica sulla bugia: un uomo che racconta sempre bugie a un certo punto le incontra sulla propria strada, una per una.

Il mio racconto verte sul significato, sul senso della menzogna. Molti ritengono che mentire sia a priori una cosa sbagliata, come rubare. Per me non è proprio così. La bugia può avere una sua funzione: per esempio si può mentire per generosità e compassione, ed è lecito. Dal mio punto di vista chi insiste nel dire la verità sempre e in ogni circostanza, non è necessariamente una persona migliore di colui che ogni tanto si permette una buona bugia. Nella tradizione ebraica la bugia bianca, per così dire, è consentita. Naturalmente, nell’insegnamento dei nostri maestri, sono specificati con molta cura i casi in cui sono ammesse le bugie, e sono casi bizzarri, ma in qualche senso ovvi. È lecito dire una bugia per non rendere qualcuno infelice. Ed è senz’altro doveroso mentire a quella padrona di casa che ti invita a pranzo e ti cucina delle schifezze solenni: sei costretto a dire che è stato un ottimo pranzo.
È vero che questa storia del mondo sotterraneo, dei personaggi inventati nelle nostre bugie, è una metafora della scrittura, ma nel mio caso è stato anche un modo per affrontare me stesso. Sono un uomo che non sempre dice la verità - non solo nella scrittura, ma anche nella vita di tutti i giorni. Ogni tanto una bella bugia ci sta bene, e ne apprezzo il suo valore.


G.B.: In questo caso l’obiettivo della tua scrittura è quello di insegnare? C’è un senso di responsabilità di cui ti senti investito nei confronti della società?

Nella vita reale sono una persona che sente il peso della responsabilità, e vivo in un paese in cui molto spesso viene chiesto di prendere una posizione su molte questioni. Ma, come scrittore, non provo questo senso di responsabilità. Per me la scrittura è il luogo della libertà e quindi, quando scrivo un racconto, o una delle mie storie, non ho la sensazione che il mio racconto abbia una qualche funzione; non scrivo per educare, non scrivo per insegnare, non scrivo per rendere il lettore più sano o meno grasso. Non è questo lo scopo della scrittura per me. Quando scrivo attingo a una sincerità che non mi è sempre possibile come persona.


G.B.: Non tutti i racconti sono ambientati a Israele, ma molti sì. E molti sono ambientati a Tel Aviv. Da sempre è nota la contrapposizione tra questa città, gaudente e secolare, e Gerusalemme, religiosa e ortodossa. Nella prima, così si dice, ci si diverte mentre nella seconda ci si annoia. Eppure leggendo il libro si apprende che Tel Aviv è anche un posto terribilmente nevrotico, e lo sono anche i suoi personaggi. Quello che palpita nelle pagine di Etgar Keret sembra un Paese sull’orlo di una crisi di nervi.

Mi sembra, in tutta onestà, che l’intero genere umano sia sull’orlo di una crisi di nervi. In Europa la sensazione di una minaccia incombente è più facile da rimuovere, mentre in Israele si vive in una sorta di timore permanente del genocidio. Oltre che per le minacce attuali, le radici di questo sentimento affondano nella storia dell’ebraismo. Da noi si percepisce costantemente, sullo sfondo, uno stato di timore e di ansia. Non sto dicendo che non esista altrove, ma certo da noi è davvero molto tangibile. L’angoscia e la minaccia sono sempre presenti. Si avverte il peso della morte come fine dell’esistenza personale, ma anche di un intero ordine sociale: è una paura in cui siamo immersi costantemente. Molto spesso l’istinto ci dice di reprimere questo pensiero, ma secondo me sarebbe meglio farci i conti. Accettarlo, prenderlo come un dato di fatto e cercare di vedere la nostra vita, con i suoi limiti, come un dono, come qualche cosa di positivo. Non vivere sotto il segno della paura.


G.B.: Per tornare alla sfera della creatività: insegni ma sei anche un regista, esprimi la tua fantasia anche attraverso le immagini.

La scrittura è sicuramente la modalità più istintiva e naturale per me. Scrivere è una professione molto solitaria. Invece fare un film è un’impresa fatta di collaborazione. Sceneggiatori, attori, scenografi, truccatori, operatori vedono il film un po' come una loro creatura. È un aspetto del lavoro cinematografico che mi piace molto. Ecco perché dopo un lungo periodo in cui mi sono dedicato alla scrittura adoro gettarmi nell’avventura della realizzazione di un film.


G.B.: Che rapporto c’è tra le due attività: quanto è visiva la tua scrittura o quanto letteraria la tua attività di cineasta?

Sono convinto che la mia scrittura sia piuttosto visiva, proprio per sua natura, nel senso che molto spesso prende spunto da elementi visivi. È altrettanto vero che nel mio lavoro di cineasta c’è molto del mio modo di fare letteratura.
Viviamo in un’epoca in cui l’industria cinematografica non ama mandare in crisi il pubblico lanciando delle sfide. La letteratura invece lancia continuamente delle sfide al lettore. Mi spiego: mi piace realizzare i film allo stesso modo in cui scrivo le storie, cioè non partendo dal presupposto che quello che dico debba essere necessariamente compreso. Non mi preoccupo che piaccia, mentre l'industria cinematografica mira al successo e alle vendite. Ecco dove entra in scena la mia personalità di scrittore.
Faccio un esempio che riguarda Meduse, il film realizzato in collaborazione con mia moglie. In una scena un personaggio guarda un album di fotografie e vede un gelataio, che nel film era interpretato da mio padre. C’è un piccolo effetto speciale: nella foto la camicia del gelataio si muove al vento. I miei collaboratori mi dicevano che per realizzare la scena in modo che tutti la capissero bisognava che la camicia svolazzasse in maniera molto visibile. Io invece non volevo che fosse così evidente. Chi guardava si doveva chiedere se la camicia stava veramente svolazzando oppure se lo aveva solo immaginato. Secondo loro, invece, se il movimento era così impalpabile, solo il 50% degli spettatori avrebbe capito. La mia scelta, ovviamente, è stata quella di rischiare di scontentare il 50% che non avrebbe capito.


G.B.: Qual è il tuo rapporto con la religione? Provieni da una famiglia laica o religiosa?

La mia famiglia è laica, ma ho una sorella ultraortodossa che all’età di 49 anni ha già 11 figli e 9 nipoti e abita a Mea Shearim, il quartiere più ultraortodosso non solo di tutta Gerusalemme ma anche di tutta Israele. Invece mio fratello è di sinistra, politicamente vicino all’anarchia. La nostra famiglia è molto variopinta, ma siamo molto uniti e legati. Tempo fa, per descrivere le posizioni della famiglia verso la religione, mio figlio di 6 anni ha detto a un amico: “In famiglia siamo molto diversi: c’è mia zia che crede che dio esista, mio zio che non esista e io e papà non abbiamo ancora deciso”.




13 settembre 2012 Di Mary Adorno

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