Simone Weil legge le tragedie, la poesia e la filosofia della Grecia antica e ne rimane affascinata a tal punto da impegnarsi nell’arco di circa otto anni (1936-43) in una serie di scritti sulla cultura ellenica – tra brevi saggi, articoli, traduzioni e abbozzi – che la Casa Editrice Adelphi ha ora riuniti in un libro dal titolo La rivelazione greca.
Intento audace sotteso a questi testi: cogliere nel cristianesimo dell’origine lo spirito espresso nei sommi vertici della speculazione e dell’arte dell’antica Ellade, nonché leggere il Nuovo Testamento alla luce del pensiero dei Presocratici, dell’orfismo, dei Pitagorici e infine della mistica platonica piuttosto che della Bibbia ebraica, ritenendo Simone il Vangelo − paradossalmente ma non troppo – “l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco”.
Ed è giusto Platone, a suo avviso, a scoprire “l’unica prova legittima” dell’esistenza di Dio: una prova basata sull’osservazione della bellezza del mondo, la quale è in grado di ispirare un amore che non può avere la mera materia come oggetto, ma quel bello-bene (kalos-agathos) assoluto, espressione del divino.
Così: “L’anima in cerca del piacere – nota poeticamente la Weil – incontra la bellezza divina, che quaggiù appare, sotto forma di bellezza del mondo, come una trappola a lei tesa”.
Ne consegue fatalmente che: “Col favore di questa trappola Dio s’impossessa dell’anima, lei malgrado”. E se nei dialoghi platonici Simposio e Filebo, si accenna a ciò, sarebbe nel Timeo che il filosofo ateniese annuncerebbe a chiare lettere che la “sostanza” basilare del mondo universo è costituita dall’amore. Altra idea di fondo del Timeo è che la realtà mondana rappresenta lo “specchio” di quell’Amore con l’iniziale maiuscola, chiamato da noi Dio, di cui l’uomo sarebbe l’immagine.
Prendere a modello quell’Amore, sempre secondo la Weil, comporta però un’accoglienza/accettazione di “tutte le ferite” prodotte in noi dagli eventi. Si tratta del sì incondizionato nel confronti di qualsivoglia perdita, dolore o offesa. Un sì che rappresenta l’amor fati, l’accondiscendere al destino e alla cruda necessità alla quale siamo sottoposti in quanto creature limitate e vulnerabili.
È, questa dimensione religiosa mistica, l’approdo cui ben presto giunge la navigazione weiliana tra le isole della creatività letteraria e filosofica greca. Un misticismo che comporta – nella prospettiva di aprirsi all’amore – il venir meno dell’egoità, dunque la “rinuncia al potere di pensare tutto in prima persona”, che altro non è poi che l’abbandono di ogni bene per seguire Cristo: il verbo incarnato, il logos, per dirla nella lingua di Eraclito e degli Stoici. E, scrive ancora Simone, “logos è il nome anche del nostro amore più ardente. L’amore che san Giovanni portava a colui che era suo amico e signore, quand’era reclinato sul suo petto durante la Cena”.
Amore, accettazione e obbedienza a Dio, chiede quindi la Weil agli uomini suoi contemporanei nella distretta tragica del secondo conflitto mondiale.
Può sembrare follia, oppure pietistica ingenuità; non lo è affatto qualora si ritenga − come lei e i mistici di ogni tempo e luogo, greci inclusi – che: “consenso è l’amore soprannaturale, è lo Spirito di Dio in noi”. Pare semmai provocazione: scandalo nell’accezione più autentica del termine. Non posso fare a meno di concludere riportando le straordinarie parole di Simone sulla sofferenza/avversità da accogliere di buon grado, tanto esse suonano al contempo poeticissime e spiritualmente pregnanti.
“Ogni specie di sventura ben sopportata fa passare dall’atra parte di una porta, fa vedere un’armonia sotto il suo vero volto e lacera uno dei veli che ci separano dalla bellezza del mondo e da quella di Dio”.
Recensione di Francesco Roat
Simone Weil - La rivelazione greca
A cura di Maria Concetta Sala, Giancarlo Gaeta
489 pag., 28,00 € - Edizioni Adelphi 2014 (Biblioteca Adelphi)
isbn: 9788845928550
L'incontro tra Simone Weil e alcuni testi della Grecia antica, innanzitutto l'Iliade, Platone, i pitagorici e i tragici, ha segnato uno dei picchi del secolo scorso. Nulla di quanto la luce della sua mente ha raggiunto è rimasto immutato. In particolare i Vangeli, come se la via regale per capirli non passasse da Gerusalemme, ma da Atene. Il verbo come mediatore, il sovrannaturale e l'innaturale, la bellezza del mondo, il giusto punito, la sventura: sono alcuni dei temi che Simone Weil tratta in questi scritti, non più nella forma altamente condensata dei quaderni, ma in una trattazione distesa, come chiarendo in primo luogo a se stessa le sue abbaglianti intuizioni.
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