leggi la recensione con la madre Liv Ullmann
La prima cosa che colpisce, quando la si incontra, è la sua somiglianza con la madre, la mitica attrice Liv Ullmann.
Dopo, la sua gestualità quando parla, quasi che le sue mani recitassero una parte di accompagnamento alle sue parole.
Linn Ullmann è vivace, è brillante, è ‘simpatica’ perché dà l’impressione di trovare simpatici gli altri, ha quell’empatia che, durante l’intervista, dirà essere uno dei requisiti per scrivere.
Le chiedo quale sia il mistero del suo nome, se Linn sia un ‘nome di penna’, visto che il suo vero nome è Karin Beate. No, non è uno pseudonimo, è proprio il suo nome, quello che volevano darle i suoi genitori ma, quando lei è nata, per un qualche motivo in Norvegia il nome Linn non era accettato all’anagrafe - ecco perché Karin Beate, un nome scelto dal padre e l’altro dalla madre.
E non le chiedo, perché mi pare una curiosità indebita, se Linn fosse il risultato delle iniziali dei nomi di un uomo e una donna che si amavano molto, come per un personaggio del romanzo de La ragazza dallo scialle rosso, ma mi piace pensare che sia così.
• leggi la recensione del romanzo La ragazza dallo scialle rosso
C’è difficoltà di comunicazione tra i personaggi del suo romanzo, tra madre e figlia, tra marito e moglie… Ce ne vuole parlare?
Volevo scrivere un libro sul silenzio, su silenzio e segreti e grandi e piccole bugie.
Ognuno è la sua storia.
Volevo scrivere di una famiglia in cui tutti sperimentano la stessa cosa, ma la recepiscono in maniera diversa, ne parlano in maniera diversa, ne hanno una comprensione diversa. L’inizio è su una giovane che appare e poi scompare. È lei il silenzio assoluto, perché scompare e da lì incominciano tutte le altre storie, la rivelazione di conflitti, segreti, amore, dolore e ricordi.
Qualche giorno fa uno scrittore italiano, Gianrico Carofiglio, ha detto che scrivere è un ‘corpo a corpo’ con se stessi. Come affronta lei la scrittura?
Questo libro è anche sullo scrivere, uno dei personaggi è uno scrittore. La sua tragedia è che non riesce più a scrivere.
Mio padre diceva “se non fai il tuo lavoro, la creatività si rivolgerà contro di te e diverrà un demone.”
Scrivere è il demone di Jon.
Gertrude Stein diceva che scrivere è per il 90% eliminazione e per l’1% ispirazione. Mio padre diceva che scrivere è l’1% ispirazione e il 90% disciplina. L’unica maniera di scrivere è aprirsi al mondo, avere un occhio freddo e un grande orecchio, essere sempre consapevoli.
Scrivere è alzarsi la mattina e farlo come qualunque altro mestiere, come suonare o ballare, con disciplina e applicazione.
Lei è molto attenta alle figure degli adolescenti nel romanzo, e c’è dell’irrisolto, quasi dell’adolescenziale, anche negli adulti…
Conosco molte persone di età diverse che non sono mai cresciute del tutto. Volevo scrivere una storia d’amore, ma che fosse una storia d’amore spezzato, volevo arrivare alla metà di un matrimonio quando lo specchio è rotto e cerchi di mettere insieme i frammenti.
È meno interessante scrivere di persone compiute e sagge.
La ragazzina Alma è stato il primo personaggio di cui ho scritto: Alma cerca la verità in questo mondo di piccole bugie. Vuole capire e sapere quello che è vero. Vede bugie e si infuria. Come la nonna, sempre alla moda e sexy, colta, ma che ha in sè una furia per come è il mondo e come è diventata la sua vita.
Gli adulti sono persone che hanno delle colpe ma non sono cattivi, non sono degli eroi. Jon non è cattivo, fa pasticci, ma a me non interessa scrivere di persone che fanno tutto bene,
Ho letto un altro suo romanzo, il titolo in inglese è A Blessed Child, e ho trovato due episodi simili ad altri due raccontati ne La ragazza con lo scialle rosso e mi sono chiesta se fanno parte della sua memoria, se hanno per lei un significato importante. Uno è quello in cui la mamma in questo romanzo e il papà nell’altro stabiliscono il ‘tempo fuori casa’ per i bambini, con il divieto assoluto di suonare il campanello o bussare prima dell’ora fissata, e l’altro è quello, molto tenero, del mantello dell’invisibilità - alla bambina viene fatto credere che il cappotto o la giacca a vento che le vengono dati la rendano invisibile a tutti.
Non mi ero accorta di aver usato due volte questi episodi...
È un ricordo che ho di quando ero bambina - vivevo con la zia, papà e mamma erano via per lavoro, e la zia aveva questa regola del tempo ‘fuori’.
In Norvegia, però, è così: i bambini devono restare fuori all’aria aperta per un certo numero di ore. Ricordo di essere stata lasciata fuori e di non poter tornare fino alle due. Ma quando sarebbero state le due?
Io non sapevo leggere l’orologio, né lo avevo. Però il mio ricordo non è spaventoso, mentre nei due romanzi le conseguenze di questo ‘tempo fuori’ sono spaventose.
Prendi un ricordo personale e vedi che cosa succede...
Il mantello dell’invisibilità, invece, è un elemento delle fiabe, è l’abilità di diventare invisibile e però poter vedere gli altri. Entrambi i bambini sembrano ‘vedere’. Da bambina era un mio grande desiderio vedere tutto senza essere vista. Nella mia professione sarebbe bello: vedere e sentire e imparare dagli altri senza che nessuno mi veda. Poter scomparire e vedere che cosa succede. È uno dei temi del libro: scomparire ed essere sempre presente.
Nel libro colpisce la continuità della storia. Attraverso i punti di vista, tutto procede tra flash-back e anticipazione a partire dalla festa. Viene da paragonarlo a un piano sequenza cinematografico. Quanto ha pesato, nella sua tecnica narrativa, nascere nel mondo del cinema?
Sono cresciuta con il cinema, mio padre e mia madre erano immersi nel cinema e nel teatro. Sarebbe strano se non ne fossi stata influenzata.
Quando scrivo, penso alle luci, è importante per l’atmosfera e le voci dei personaggi, e poi penso al palcoscenico, dove sono, e poi dove è la cinepresa: chi racconta la storia? Chi la sente e chi no? Chi non è nel quadro o nella scena? Non mi interessa la narrativa tradizionale, non credo che la vita sia così, che risolva tutto. Le cose vanno avanti. È quello che mi interessa, come procedono le persone.
Scrivo come se componessi un mosaico.
Come ha raggiunto l’equilibrio tra cuore e mente nella sua scrittura? E da dove viene il senso di perdita che pervade il libro?
In tutti i miei libri c’è un senso di perdita, si scompare sempre l’uno per l’altro, e in tutti i miei libri avviene qualcosa di irrevocabile e si osserva come si va avanti dopo di quello.
C’è un’espiazione anche quando succede qualcosa?
C’è il perdono?
Non penso a cuore e cervello separatamente, tutto va insieme, non separo gli strumenti della scrittura. Bisogna scrivere con un cuore caldo ed un occhio freddo e la mente deve essere chiara.
Per scrivere ci deve essere empatia, apertura verso gli altri, ma anche freddezza per non cadere nel sentimentalismo.
Lei fa un uso del tempo frammentato nel romanzo, e poi c’è il finale in cui pare si possa ricominciare da capo, come se introducesse un ritorno ciclico. Questo utilizzo del tempo, quanto è funzionale al tema del libro, che si vive nella menzogna?
Non si può scrivere senza stabilire il tempo: quando accade quello che si narra e quando si racconta la storia. Noi ci ripetiamo sempre, con qualche cambiamento. Il tempo fa qualcosa al ricordo e il ricordo fa qualcosa alla storia.
Molto tempo fa, un giorno, mio padre mi ha chiamato nel suo studio - dove nessuno aveva mai il permesso di entrare - e mi ha proposto, ‘oggi seppelliamo un tesoro, cerca qualcosa di veramente prezioso per te e io farò lo stesso, andremo alla spiaggia e scaveremo una buca e seppelliremo il tesoro.
Il punto è che non si deve mai disseppellire un tesoro.’
Questo ricordo è diventato il soggetto del mio libro - allora mio padre aveva preso un grosso dente di squalo per metterlo nella scatola del tesoro, e io ho pensato che lui stesso avesse pescato lo squalo e gli avesse strappato il dente. Solo moltissimi anni dopo mi sono resa conto che di certo non era stato così, ma intanto quel ricordo era diventato magico.
Questo è quello che il tempo fa alla memoria.
Ha parlato del tesoro, che è l’episodio con cui inizia il romanzo. Ha anche pronunciato il titolo per me impronunciabile del romanzo in originale: avevo pensato a questo titolo che, pur non conoscendo la lingua, mi pareva essere un aggettivo sostantivato. Ha a che fare con il tesoro? Se sì, perché sceglierlo come titolo, mettendolo al centro dell’attenzione?
Il titolo vuol dire ‘prezioso’, qualcosa che ha grande valore e che non si deve assolutamente perdere, qualcosa che non ha prezzo.
Può essere qualcosa di materiale ma anche altro che è importante - per me i miei figli, la mia famiglia. I bambini del romanzo devono pensare a che cosa è per loro così prezioso da mettere nella scatola. Ecco, l’attenzione è su questo punto: che cosa è così prezioso da non poter perdere?
È un libro sulla perdita e sul fatto che si perdono cose che non si possono perdere.
La ‘ragazza con lo scialle rosso’ è Mille, il personaggio più enigmatico del libro: è un personaggio marginale? O è l’elemento catalizzatore, il fulcro di tutti i personaggi?
Mille è il personaggio che scompare prima ancora di scomparire.
Scompare per sua madre che la vorrebbe in una certa maniera.
Scompare sotto la severità di Siri.
Scompare per Jon perché per lui è solo una ragazza desiderabile. E poi scompare sul serio, uccisa.
La sua scomparsa mette in moto tutti: tutti diventano più di quello che sono, si estremizzano. Siri è più triste, Alma è più problematica, Jon è più ossessionato dalle sue tresche. Mille ha una funzione di catalizzatore, ha un effetto domino. Con la sua smania di fotografare, Mille cerca di essere quella che vede e non quella che è sempre vista.
Intervista di Marilia Piccone
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