Ninetto Giacalcone è per tutti “Pelleossa”.
Figlio di Rosario e Immacolata e cresciuto negli anni Cinquanta a San Cono, piccolo paese dell’entroterra siciliano, Ninetto ha lo spirito affilato almeno quanto le costole che s’intravedono sotto la poca carne che la miseria gli concede.
Impiegherà poco a venire a patti con l’unica, vera possibilità di combinare qualcosa nella vita: andare via. Suo padre ha poche speranze di mettere assieme il pranzo con la cena, e sua madre è ricoverata a Catania dopo aver avuto un colpo apoplettico dal quale non si riprenderà più.
Al nord, invece, rombano i motori a scoppio del boom economico, e Milano assume nei racconti che arrivano alla periferia dell’impero la densità mitica di un Eldorado.
Ma quella promessa di benessere non è per tutti, e il bambino non tarderà a rendersene conto, fra lavoretti arrangiati alla bell’e meglio e emarginazioni più quotidiane di un pane cui manca perfino il sapore.
Il racconto di quei primi, durissimi anni al nord, è in parte almeno rischiarato dalle luci degli incontri e della tensione verso un benessere che finché è solo immaginato può essere anche grande abbastanza per i sogni di un ragazzino. Ma il racconto dei trent’anni che a quel primo periodo han fatto seguito – trent’anni passati in un battere di ciglia, a fare il mulettista o alla catena di montaggio in una qualche fabbrica dell’hinterland milanese – non c’è parola in grado di redimerlo, neppure se si è come Ninetto, che ha la “testa piena di parole” e si sarebbe voluto poeta.
In quella vita c’è stato un prima e un dopo. Un gesto violento ha significato anni di carcere, e solo verso la fine scopriremo cosa sia effettivamente successo. Nel convergere del racconto verso quel climax, impareremo a conoscere la storia di Ninetto e quella di tanti come lui.
Di Ninetto Pelleossa abbiamo già detto: è sua la voce che racconta, argentina e vivissima prima, e amara – ma indomita – poi. Carattere fiero, è capace di slanci altruisti e di repentine gelosie. La curiosità del ragazzino che è stato lascia poi il passo alla disillusione dell’adulto che diventerà.
Il maestro Vincenzo, primo a riconosce e apprezzare in Ninetto la curiosità e il fascino per la parola.
Il maestro rimarrà una figura mitica anche – e soprattutto – negli anni dell’esilio al nord, con quel suo peculiare equilibrio di carattere capace però di lasciar intravvedere squarci del “mondo offeso” di Vittoriniana memoria, puntando con precisione l’indice sui responsabili delle iniquità.
Il padre di Vincenzo è in fondo un uomo buono, dietro la sua durezza, ma è vinto dalla vita, e incapace di reagire a quel che altri sembra aver disposto per lui. La malattia della moglie – e madre di Ninetto – è il sigillo definitivo su una traiettoria senza alcuna redenzione.
Maddalena, sposa bambina di Ninetto, che gli sarà accanto nelle traversie della vita con saggezza e affetto, è madre di Elisabetta, loro figlia, che conosceremo solo attraverso il racconto frammentato e amaro che di lei restituisce il padre Ninetto.
È una lingua scabra e guizzante, quella con la quale Pelleossa racconta la sua storia: ricca di suggestioni dialettali, è il vero asse attorno al quale si struttura la tensione del racconto, trovando in esso una giustificazione narrativa.
Già: perché Ninetto gioca con le parole, ne è innamorato sin da quando il maestro Vincenzo gli ha fatto conoscere Pascoli e la poesia. È nella lingua, irriducibile alle pastoie con cui tutti cercano di imbrigliarlo, che Ninetto trova un riscatto alla sua storia. È, la sua, una koinè vivace, fresca, ricca di accenti e di asimmetrie; una lingua che trova la sua musica nella ricerca antiretorica di un registro parlato, e raggiunge il suo scopo con una facilità apparente che s’intuisce essere invece frutto di un lavoro certosino e scrupoloso.
La storia di migliaia di bambini che migrarono al nord dalla Sicilia, dalla Calabria, dalla Puglia a cavallo fra gli anni cinquanta e il decennio successivo, è sublimata nella vicenda immaginata ma credibile di Ninetto Pelleossa.
Un’ennesima “crociata dei bambini”, di quelle che la storia a volte orchestra senza neppure offrire agli involontari protagonisti di quelle storie durissime il risarcimento della memoria.
Questo è il merito che va reso a Balzano: essersi preso un pezzetto di quella storia, e averne impastato la malta con la propria sensibilità e con attenzione, per risarcire almeno un poco la lunghissima fila di coloro che con le proprie vite sacrificate hanno contribuito a rendere migliore quelle degli altri.
La letteratura, certamente, è anche questo: perpetuare una memoria che alcuni potrebbero non voler più serbare e rendere giustizia a ciò che è stato, trovando la voce più giusta per farlo.
Marco Balzano ha raccolto un testimone prezioso: perché quella voce l’ha trovata, e nelle sue pagine se ne avverte tutta la sincera necessità.
Ma c’è anche un potente apologo sul rapporto fra i padri e i figli (tema caro a Balzano sin dal suo esordio con Il figlio del figlio): tra padri, cioè, cui la storia ha negato la possibilità di assolvere compiutamente al proprio mandato, e figli che – a causa di quella mancanza – sono rimasti (per l’appunto) figli di figli, perpetuando una maledizione pedagogica che è una delle violenze più gravi fra le molte inflitte al nostro Mezzogiorno.
Recensione di Matteo Baldi
Marco Balzano - L'ultimo arrivato
205 pagg., 15 euro - Sellerio Editore Palermo
ISBN 9788838932557
Vincitore premio Campiello 2015
Negli anni Cinquanta a spostarsi dal Meridione al Nord in cerca di lavoro non erano solo uomini e donne pronti all'esperienza e alla vita, ma anche bambini a volte più piccoli di dieci anni che mai si erano allontanati da casa. Il fenomeno dell'emigrazione infantile coinvolge migliaia di ragazzini che dicevano addio ai genitori, ai fratelli, e si trasferivano spesso per sempre nelle lontane metropoli. Questo romanzo è la storia di uno di loro, di un piccolo emigrante, Ninetto detto pelleossa, che abbandona la Sicilia e si reca a Milano. Come racconta lui stesso, "non è che un picciriddu piglia e parte in quattro e quattr'otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via. Era la fine del '59, avevo nove anni e uno a quell'età preferirebbe sempre il suo paese, anche se è un cesso di paese e niente affatto quello dei balocchi". Ninetto parte e fugge, lascia dietro di sé una madre ridotta al silenzio e un padre che preferisce saperlo lontano ma con almeno un cenno di futuro. Quando arriva a destinazione, davanti agli occhi di un bambino che non capisce più se è "picciriddu" o adulto si spalanca il nuovo mondo, la scoperta della vita e di sé. Ad aiutarlo c'è poco o nulla, forse solo la memoria di lezioni scolastiche di qualche anno di Elementari. Ninetto si getta in quella città sconosciuta con foga, cammina senza fermarsi, cerca, chiede, ottiene un lavoro. E tutto gli accade come per la prima volta...
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