Le interviste di Wuz.it

Intervista a Marco Bechis

Il mio nome è Victoria di Victoria Donda  
Madres y Abuelas de Plaza de Mayo
Buenos Aires: La Escuela de Mecanica de la Armada - l'E.S.M.A.

Il regista italocileno ha presentato al mondo con due splendidi film, tutto l'orrore della dittatura argentina (Garage Olimpo) e il dramma dei figli dei desaparecidos (Hijos) che, sottratti alla nascita alla vera famiglia, dati in dono come  prezioso bottino di guerra ai militari assassini, hanno scoperto la loro origine grazie al lavoro condotto dalle madri e dalle nonne di Plaza de Mayo. La vicenda di Victoria Donda, di cui ci occupiamo in questo servizio, ha, per chi legge la testimonianza della protagonista, un particolare impatto emotivo, alla luce dei film di Bechis che usciranno a breve anche in dvd. Il suo film più recente, La terra degli uomini rossi, presentato alla Mostra di Venezia nel 2008, mette in scena la drammatica situazione degli indigeni Guaranì del Brasile, uomini e donne non scomparse, ma dimenticate.  


È da poco uscita l’autobiografia di Victoria Donda, un libro che sia per la sua storia personale che per tutti gli accenni ai suoi genitori e al suo ritrovamento mi ha fortemente ricordato due suoi film: Garage Olimpo e Hijos, per cui ho sentito l’urgenza di poterle parlare, di poterle chiedere… Prima di tutto, lei ha girato questi due film quando ancora i criminali erano liberi.

Sì.


Che impatto hanno avuto in Argentina. Non so come siano stati accolti i suoi film, un film come Garage Olimpo in particolare?

I miei primi film in Argentina sono stati per un certo periodo praticamente invisibili: Garage Olimpo ha avuto pochissimo pubblico e Hijos ancora meno. Quando uscì Garage Olimpo abbiamo pensato che la gente avesse paura di andare al cinema a vedere un argomento del genere in una sala buia, in un momento in cui c’era l’impunità per le strade, in cui i processi contro i militari non erano ancora cominciati, è logico che la gente avesse paura ed è anche comprensibile che non avese molta voglia di andare a vedere un film sulla tortura e sui campi di concentramento...  Poi c’è stato un fenomeno curioso: quando il film è uscito in vhs, perché ai tempi non c’erano ancora i dvd, la vendita di copie è stata altissima perché la gente ha voluto comprarsi la propria copia per vedersela a casa. Per un lungo periodo i miei film hanno avuto un esito in Argentina molto deludente, quasi come se quel pubblico non avesse voglia di affrontare certi argomenti, in più argomenti trattati da uno che viveva fuori… Quindi diciamo che il mio vero primo pubblico è stato quello internazionale, italiano, francese, anche tedesco, non certamente quello argentino. C’è stato un lungo periodo di rimozione da parte degli argentini di quanto era successo nel loro Paese, ma oggi per fortuna non è più così: questi miei film ora sono diventati un punto di riferimento nelle scuole e nelle università.


Ancora una domanda su Garage Olimpo e poi passiamo a Hijos. Vedendo il suo film prima di aver letto il libro della Donda, e soprattutto prima di essere stata quest’estate al Museo della memoria di Buenos Aires, cioè all’Esma, mi sembrava che la sua rappresentazione fosse un'esasperazione della realtà, invece era tutto profondamente vero.

Nel film dice?


Sì. Parlo di Garage Olimpo. Come ha fatto a ricostruire con tanta precisione una serie di tragici eventi?

Semplicemente. La realtà delle cose la conoscono tutti, il problema non è tanto della ricostruzione precisa, è questione di sapere come affrontare cinematograficamente un linguaggio, cioè come raccontare la violenza più che dimostrare precisione. Credo che la precisione nasca dal modo in cui sono state affrontate certe tematiche. Ci sono film molto attenti a questo aspetto, gli americani sono bravi a fare dei film dove tutto è estremamente veritiero, veridico, ma poi sono estremamente finti perché mettono in evidenza, attraverso il melodramma, una serie di effetti che non sono per niente reali. Quindi non è un problema di quanto sia più realistico un film, ma quanto sia più cinematograficamente riuscita la messa a fuoco del tema.


In Garage Olimpo non si vede quasi mai l’atto violento, ma si percepisce: il volume della radio alzato quando vengono torturati i prigionieri e poi, finito il lavoro sporco, abbassato, è qualcosa che fa tremare, è di una violenza sconfinata.

Questo lo dovono dire gli spettatori…


La storia di Victoria è la storia di una donna – perché aveva 27 anni – ""ritrovata"" e del suo tormento nello scegliere, nel decidere. È appunto, la vicenda di Hijos, i fratelli… Come è riuscito a “sentire” e a ricostruire tale tormento interiore?

Non so dare una risposta: ho fatto un film, ho raccontato una storia… Quando si scrive qualunque storia, qualunque libro, qualunque trama, ci si immedesima nei personaggi e si pensa di interpretarne i sentimenti.


Ma lei aveva parlato con qualcuno di questi ragazzi?

Certo, io conosco tutti gli hijos da quando sono nate le organizzazioni, così come conoscevo moltissimi sopravvissuti ai tempi di Garage Olimpo, è evidente che alla base c’è la conoscenza del reale, che poi va in qualche modo elaborato e fatto diventare racconto.


C’è molto pudore nel libro di Victoria sul suo rapporto con i genitori appropriatori.

Io non li chiamerei genitori, ma solo appropriatori …


Certo, gli appropriatori…

I genitori sono gli altri, quelli che sono morti.


Però nei confronti di questi appropriatori Victoria dice che non riesce a provare solo odio…

Questo è il suo sentimento ed è assolutamente indiscutibile. Ma noi che siamo esterni a quella vicenda dobbiamo dare alle cose il loro nome e non bisogna fare lo stesso giochetto che fanno le radio, le televisioni quando intervistano Victoria Donda.
Sono stato recentemente con lei a presentare il mio film Hijos a Torino e di queste cose abbiamo parlato. Quelle persone sono appropriatori, ladri di bambini, collusi con criminali e  sono responsabili indiretti dell’uccisione dei genitori di quei bambini. Punto. Poi che lei nutra dei sentimenti è una tortura in più nella sua testa, ma non è un nostro problema. Continuare a dire che sono i genitori adottivi è un falso, stiamo facendo il gioco proprio dei militari. Quindi bisogna essere molto chiari: io non li nomino mai come genitori, non lo sono, hanno fintamente ricoperto un ruolo, mentendo, e quindi creando degli scompensi psicologici a questa bambina che sicuramente si porterà dietro per tutta la vita. Diverso, come è anche successo, il caso di persone che avevano adottato legalmente un bambino, nel senso che si erano trovati tra le mani un bambino dato loro da qualcuno, ma non avevano idea alcuna della provenienza di questa bambina o bambino e che in buona fede l’hanno allevato, e che poi quando il bambino ha scoperto di essere figlio di scomparsi, anche loro si sono sorpresi e sono rimasti turbati da quell'assurdo iter.


Beh, sono storie diverse, certo…

E lì si potrebbe parlare di un rapporto sano tra adottati e genitori adottivi. Addirittura molti di questi casi sono stati chiari fin dall’inizio. I genitori hanno subito detto “sei nostro figlio, ma sei stato adottato”, così come si fa con qualunque figlio adottivo che si prenda da piccolo quando raggiunge i sei, sette anni, età in cui gli psicologi consigliano di farlo. Poi è venuto fuori che erano figli di scomparsi, e la cosa si è risolta senza particolari traumi… Addirittura ci sono delle famiglie che fanno il Natale tutti insieme, i genitori adottivi e i parenti dei veri genitori… Altra cosa è il caso di Victoria Donda, dove uno zio militare fa scomparire il fratello – quindi il padre di Victoria – poi viene sequestrata anche la madre, che viene fatta partorire e infine eliminata fisicamente. La bambina, Victoria, viene data a un’altra persona, sempre un militare di stanza all’ESMA. Questa è un’altra situazione, un altro scenario.


I problemi di identità sono forse insuperabili: ricomporre una persona che ha vissuto sempre in un certo modo con una persona che si scopre essere tutt’altro credo che crei molti problemi psicologici. La società argentina  temo che non aiuti poi moltissimo... Beh non so, io sono molti anni che non vivo lì, ma credo proprio di no.

Parliamo adesso del suo ultimo film, La terra degli uomini rossi, che mi aveva molto colpito perché mi sembrava qualcosa a metà tra fiction e documentario.

Non è un documentario per niente, è un film dove gli attori sono attori, hanno recitato dei ruoli, esattamente come si fa in qualunque film di finzione, e quindi non c’è nulla di documentario. Documentario vuol dire prendere dal reale una situazione e filmarla, lì non c’è nulla di reale, nessuna di quelle capanne, di quelle situazioni sono reali. Sono ricostruite, assomigliano a quelle vere, ma non lo sono, quindi è finzione a tutti gli effetti.


Non deve essere stato semplice riuscire – o forse sì, poi me lo dirà lei – a coinvolgere attori che credo vivano con molto sospetto qualsiasi cosa arrivi dal “ricco mondo occidentale”…

Dipende da come si affrontano le cose: è stato un accordo, un contratto fatto tra di noi, molto chiaro. Loro sono stati pagati per fare del lavoro. Per loro all’inizio è stata una semplice fonte di denaro, poi piano piano hanno capito che quel film raccontava storie che avrebbero potuto diventare uno strumento per le loro rivendicazioni.
Oggi, La terra degli uomini rossi è diventato un riferimento per le comunità indigene e per gli antropologhi brasiliani. Scherzando un po’ potrei dire che è stato forse più facile fare un film del genere che farne uno a Roma... Davvero, non è stato per niente complicato. Le cose vanno fatte piano e bene e le persone si possono capire c’è il tempo di riflettere e parlare. Se si arriva in fretta e furia e si vuole fare tutto in dieci minuti, non si riesce a fare niente.


Il tema del suicidio è uno dei temi forti di questo film. Per chi non l’avesse visto quali sono i motivi per cui i giovanissimi in particolare fanno una scelta così radicale?

C’è una maglietta che ho fatto fare per Natale dell’anno scorso e che è stata regalata a molta gente, con una scritta che ho trovato su di un muro in una comunità indigena dell’Ecuador, e dice “Io immagino il mondo, ma il mondo non immagina me”. Ecco, alla base di questa ignoranza che il mondo ha dell’altro, del nostro mondo verso l’altro, quello degli indigeni, delle minoranze, credo nasca la sensazione di non esistere e quindi un adolescente che attraversa la crisi tipica di qualunque adolescente del mondo si vede gravato anche del fatto di sentirsi automaticamente escluso dal futuro e dalla società. Quindi credo che ci sia questa aggravante che fa sì che alcuni di loro prendano una drammatica decisione.


Ci può dire se ha dei progetti, a cosa sta lavorando, qual è il prossimo appuntamento che avremo con lei?

Farò un film sugli adolescenti a Milano. Niente a che vedere con il Brasile, l’Argentina… questa volta facciamo il salto dentro il secchio.


E quando uscirà?

Stiamo ancora lavorandoci. Forse riusciremo a fare le riprese quest’anno, speriamo, ma non ne siamo sicuri.



Marco Bechis e il cast di La terra degli uomini rossi


08 febbraio 2010 Di Grazia Casagrande

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