Le interviste di Wuz.it

Maurizio De Giovanni: occhio al romanzo nero italiano!

In occasione dell’uscita del romanzo, Sara al tramonto, inserito nella nuova collana dedicata al giallo, ""Nero Rizzoli"", la redazione di Wuz è stata invitata a fare un’intervista collettiva con De Giovanni nell’imponente palazzo Mondadori di Segrate.
Più che di un’intervista si è trattato di una conversazione informale.
Eravamo seduti in circolo insieme a De Giovanni, quasi come in una seduta di terapia collettiva; e in un certo senso di questo si è trattato: si è creato un clima intimo, che ci ha permesso di parlare apertamente del nuovo libro, ma non solo. Insieme siamo riusciti ad analizzare Sara, il suo nuovo e intrigante personaggio, entrando nella nascita, nell’evoluzione e nella psicologia di quest’ultima; siamo riusciti a comprenderne le scelte e i comportamenti.
De Giovanni si è messo a nudo, raccontandoci il suo modo di lavorare, il suo processo creativo e la genesi dei suoi personaggi. In relazione a Sara abbiamo parlato del ruolo della donna nella società e degli stereotipi che le vengono affibbiati.
Infine De Giovanni ci ha dato un suo prezioso punto di vista sul giallo italiano, a suo parere uno dei generi più prolifici e interessanti nel panorama letterario attuale, citando numerosi autori, che creano un vero e proprio movimento letterario.



Dopo tanti uomini una donna, e anche ovviamente una donna particolare, di 50 anni, di una certa età. Da dove è partita l’idea?

L’idea è stata assolutamente casuale, nel senso che io avevo già il piano editoriale completo, non avevo bisogno di una storia, non la stavo cercando. Avevo quattro romanzi previsti per quest’anno. Dovevo scrivere il secondo dei guardiani per Rizzoli, poi Ricciardi d’estate, un libro per Sellerio a settembre e i Bastardi a novembre; il tutto condito dall’attività teatrale che non mollo – perché essendo uno scrittore napoletano devo scrivere per il teatro, comunque, sennò non vivo – e anche dall’attività collaterale alle sceneggiature.

Poi, tornando a casa una sera, dopo il teatro, all’una e un quarto del mattino, mi sono accorto che sotto casa mia – pioveva –, c’era una macchina in sosta, una machina russa, con una persona seduta alla guida. Tarda ora, sabato notte… ti sorprende questa cosa no? Questa donna aveva i capelli bianchi e il mio primo istinto è stato di chiedermi se fosse una persona anziana che avesse bisogno d’aiuto. Invece poi, passandogli vicino con il faro dello scooter, vedo che il volto non era coerente con i capelli. Il volto era molto più giovane dei capelli. Pur senza trucco, questa donna aveva il volto liscio, i lineamenti regolari, non era una persona anziana. Guardava avanti in maniera così assorta… Però aveva un volto triste, come se uno stesse pensando qualcosa di malinconico, non doloroso ma malinconico. Io passo e questa non si gira, nonostante la luce. Entro nel cancello, poso lo scooter, prendo la spazzatura per buttarla via, avendo in mente di tornare a vedere. Mi aveva un po’ intrigato. Uscendo la macchina non c’era più; era andata via, però sotto lo spazio della macchina era asciutto. Siccome pioveva dal pomeriggio significa che la macchina stava già lì, e allora io sono andato a casa, mi sono messo a letto con in mente tutte le domande relative alla donna: chi era, perché non si tingeva i capelli; uno il sabato sera è vestito da sabato sera, non in maniera così dimessa, quindi mi sono fatto tutta una serie di domande, e la mattina di domenica mi sono venute tutte le risposte, tutte. Quindi avevo la storia.

Io ho una storia per volta nella testa, quindi quando ho una storia nella testa è difficile rimuoverla per parlare di qualcos’altro. Sara non è stata, lo dico con forza, creata a tavolino. Non volevo un personaggio femminile, non mi serviva. Sara è venuta lei, con forza a me. E l’entità del personaggio, il lavoro che fa, il lavoro che ha fatto, la situazione sentimentale, la situazione fisica, il rapporto con Viola, e tutta una serie di fattori, me la rendono intrigante e mi fanno venire il desiderio di scriverne ancora.

La reazione alla solitudine ha uno spettro enorme, ma quella faccia, in quella macchina, all’una e mezza di notte, una macchina in sosta, era una reazione che io non avevo mai visto. Magari se l’avessi vista da una finestra, non mi avrebbe colpito, perché in una finestra tu sei a casa all’una e mezza di notte, non dormi e stai di fronte a tutti i tuoi fantasmi. Ma in una macchina no, sei uscita. Stai tornando? Eri a casa di uno ed è tornata la moglie? Stai aspettando che esca tuo marito, che ti ha detto che andava a giocare a poker e invece sta a casa di un’altra? Stai aspettando l’amico che non è venuto? Lo spettro di possibilità di solitudini e di reazioni alla solitudine di quella donna in quella macchina era talmente più vasto della passività della solitudine, che la dovevo scrivere per forza, sotto dettatura. L’incredibile andamento di Sara in questa prima settimana, io credo che sia dovuto essenzialmente a questo: non a Sara, ma alla solitudine.


È arrabbiata Sara…

Forse anche, sì. Io credo che sia arrabbiata per come le è andata, ma non è pentita, mai, non ha un rimorso. Ha tanti rimpianti, ma nemmeno un rimorso.
 

E l’idea del dono di Sara?

Non è un dono, è una capacità affinata. Il che la rende simile a Ricciardi, ma distante da lui per gli effetti, per il comportamento.
 

Ho notato un cambiamento nel modo in cui hai raccontato la città questa volta, perché è una Napoli che rispecchia anche tantissimo gli stati d’animo differenti della sua protagonista.

Credo di essere l’uomo più fortunato d’Italia perché vivo in una città che recita il ruolo che io le chiedo in maniera assolutamente plausibile. Se io voglio la Napoli chiassosa la trovo molto facilmente, se voglio la Napoli silenziosa la trovo altrettanto facilmente, se voglio la Napoli accogliente la trovo con grande agevolezza, così come se voglio la Napoli respingente, ostile. Napoli è una grandissima area metropolitana che offre tutto e il contrario di tutto. Io non potrei così facilmente trovare una Bologna chiassosa, mentre posso trovare una Napoli chiassosa anche in piena notte. Ho questa fortuna e la utilizzo di romanzo in romanzo. Chiaramente dobbiamo mettere da parte Ricciardi, perché Ricciardi è di un’altra epoca; Napoli era una città più piccola e strutturata diversamente, anche dal punto di vista dei rapporti umani. La Napoli di Sara è una Napoli ostile, grigia, borghese. La Napoli popolare è per sua natura più accogliente; è inclusiva la Napoli popolare, la Napoli borghese non lo è, e la geografia del voto la dice lunga da questo punto di vista. La Napoli borghese è tutt’altro che accogliente e la Napoli di Sara è una Napoli borghese, di un quartiere, il Vomero, che ha 350000 abitanti. Un quartiere privo di identità, che nasce con le case popolari negli anni ‘50 e ‘60 e poi diventa un quartiere borghese, ma l’edilizia è brutta, e ha oggi una popolazione che ha quarantamila identità differenti. L’altra parte di Napoli che racconto è la periferia nord, che è un luogo ostile per natura. È un posto complicato, dove io inserisco la sede di questa unità travestita da import export. Quindi la Napoli ostile per Sara io me la sono andata a cercare lì.
 

Ho notato che c’è una critica nel libro a quella società che vuole le donne in un determinato modo, la società che vuole le donne truccate, che si tingono i capelli. E per questo, insomma, il personaggio di Sara è estremamente interessante. Ed è anche interessante che la prima volta che l’ispettore Pardo la incontra le dice io non mi aspettavo… cosa? Si aspettava una giovane, o un uomo. Quindi quel determinato tipo di società è accettato, l’altro no.

La caratteristica fondamentale di Sara è l’imperdonabilità della sincerità. Sara è una donna sincera, fino all’esasperazione. Non finge, odia la finzione, la smantella; odia i capelli tinti perché sono una finzione, odia il trucco perché è una finzione, odia i tacchi perché sono una finzione. E soprattutto è una donna che nella sua storia personale ha fatto una cosa che noi perdoniamo a un uomo, accettiamo socialmente in un uomo, ma non in una donna, non si sa perché.

Se un uomo abbandona moglie e figlio perché si innamora di un'altra, paga quello che deve pagare, e una volta che paga è accettato da tutti, inclusa la moglie. Sara lascia il marito e il figlio perché si innamora, e non può vivere un giorno in una condizione di insincerità; ma è messalina, cioè questo è esecrabile, non glie lo perdoniamo nemmeno noi, e anche i lettori accettano questa situazione con difficoltà. Questo secondo me è inaccettabile, perché a Sara succede quello che non vorremmo succedesse mai; ma invece è una cosa che può accadere, e cosa è meglio, quando accade? restare nel buio e nella bugia, girarsi vero il finestrino e guardare fuori, pensando a qualcos’altro e condannandosi a una galera, condannando anche chi sta vicino a noi a credere in qualcosa che non è, oppure è meglio fare la scelta che fa Sara? Io non lo so, non ho una risposta, però Sara sì, e Sara segue questa via. Sara, quando si ammala Massimiliano, è la miglior candidata per prendere il suo posto, quindi una scelta di carriera naturale; ma è il tipo di donna per cui cinque minuti in più con Massimiliano che sta per moire non valgono la carriera che dovrebbe fare, per cui lei sceglie liberamente di mollare il lavoro il giorno steso in cui Massimiliano va a casa, perché deve stare con lui fino all’ultimo respiro, perché è l’amore della sua vita.
È semplice, è ovvio, è naturale che lei faccia questa scelta, ma è straordinariamente eroico. Questo fatto del naturale che debba essere eroico è in fondo una domanda che c’è sotto questo romanzo. La domanda che io mi farei leggendo è: perché siccome Sara è una donna mi dà fastidio che abbia fatto queste cose e in un uomo lo avrei accettato?

Teresa è il capo e si porta a letto dei ragazzini. Se fosse un uomo non ci stupiremmo, è brutto ma è “normale”. In Teresa, essendo una donna, ci sorprende, un po’ ci intriga voyeuristicamente. Invece è una cosa naturale. Una donna di potere che utilizza il suo potere in una maniera che noi siamo abituati a ricondurre a un elemento maschile.

Viola, che si avvicina alla madre che ha abbandonato il suo compagno fa una scelta di cuore. La testa che cosa avrebbe dovuto suggerirgli? Di allontanarsi: è la donna che ha abbandonato il suo compagno, che è pure morto. E invece no. Queste sono scelte profondamente umane e dirette, che noi tendiamo ad escludere dalle donne. Portare il tacco dodici non credo che sia una cosa facile, penso che sia sufficientemente innaturale, però le donne lo fanno, perché viviamo in una società formattata sul maschio. Un certo tipo di atteggiamento delle donne stesse è profondamente diseguale, ghettizzante. Sara invece è un personaggio che maschio o femmina che sia si comporta esattamente come si sente di comportarsi.

Ma attenzione, è un romanzo vero, e come tutti i romanzi veri è una storia, che ha un inizio, un processo e una conclusione. Nessuno vuole dare messaggi. Io provo disgusto fisico per i libri che vogliono dare delle tesi. Lo dico da lettore, il libro scritto a tesi per me è il passo precedente all’omicidio di massa. Però da questo libro, se ci fosse qualcuno che ci legge questo, io sarei contento.

 
Anche al personaggio maschile hai dato tutte caratteristiche che di solito non quelle femminili: il corredo, la casa, il letto grande, il mutuo.

Mi sono divertito da morire: Pardi è un “family man”, che cerca disperatamente la famiglia. Infatti lui sarà la vera madre del bambino, di questo sono certo.



I personaggi, Sara, l’ispettore Pardo, Viola, sono un po’ l’aspetto totale del romanzo: l’aspetto thriller, quotidiano e sentimentale. Questa sorta di caratterizzazione singola dei personaggi e quindi la creazione della storia stessa, è venuta dall’inizio o si è sviluppata in seguito?

Il romanzo si compone di tre elementi, la trama, l’ambientazione e i personaggi. La trama e l’ambientazione vanno decisi prima, dove per ambientazione intendo il complesso delle caratteristiche esterne alla trama, quindi anche la capacità di Sara di leggere il labiale, per esempio, la casa, la città, il tempo, la settimana in cui si svolge la storia. La trama la stabilisci, l’organizzi, la pianifichi. I personaggi non devono essere decisi prima perché non sono attori che recitano una parte; sono personaggi, vivi, quindi li devi lasciare andare secondo le relazioni che loro avranno. Sono gli elementi che metti nel primo passaggio della tua espressione algebrica, poi arrivi in fondo e metti l’uguale. Da quel momento in poi tu l’hai inventata l’espressione, ma non è più tua. Il romanzo è lo sviluppo di questa espressione, che porterà a un risultato e se non ti piace te lo devi tenere. Se vuoi essere onesto con il lettore, quindi, i personaggi vanno per conto loro.

Faccio un esempio, io ho fatto 10 romanzi di Ricciardi e sette romanzi dei Bastardi di Pizzofalcone. In tutti questi romanzi domina una componente, il sentimento. Quindi, se io avessi dovuto mettere un ingrediente in questa storia, avrei messo una qualche relazione sentimentale: il mio ingrediente principale, da chef è l’amore. In questo libro non c’è. C’è il ricordo di Massimiliano che è morto da due anni, che si ripropone con frasi che non dice adesso ma che ha detto all’epoca e che lei ricorda, e non c’è altro. Questo perché la storia, nel primo passaggio, non aveva questo ingrediente. In questa storia non c’entrava niente. Non faccio dare a Sara un bacio a qualcuno perché ci deve stare. Non è da lei, non c’è questa necessità. I personaggi vanno per la loro strada perché il lettore non te lo perdona se il personaggio fa qualcosa che non dovrebbe fare, quindi è inutile mettercelo. Non c’è una ricetta, per fortuna.


Riguardo a Massimiliano, come è nato il suo ruolo? perché in un certo senso ha un ruolo di controcanto in tutto il romanzo: aiuta a rendere più umano il personaggio si Sara; è tramite lui che si evince il lato più tenero e debole di Sara.

Per Massimiliano devo dire che ho fatto un lavoro personale, nel senso che ho immaginato di essere lui
. Non mi succede, io normalmente mi fermo fuori dalle storie, però nel caso di Massimiliano ho voluto immaginare quante cose direbbe un uomo a una donna tanto più giovane, che finalmente gli apre una finestra su un panorama che lui non ha mai nemmeno immaginato che esistesse. Lui ha lavorato e basta, un lavoro anche sporco, duro, difficile, che ti mette a confronto con cose terribili e disgustose: questo è un uomo che sa perché è caduto l’aereo a Ustica, come è morto Papa Luciani, che fine ha fatto Manuela Orlandi, non è uno che faceva il contabile in una azienda. E per uno così che significa l’amore? Che significa vedere che nella vita c’è anche questo, con una donna così, poi, che vede solo lui. È una apertura anche strana. Quindi l’immedesimazione nel personaggio di Massimiliano, non potendolo raccontare ma potendo riportare solo qualche frase, è stato un esercizio nuovo, che non avevo mai fatto prima. Divertente però.


La cosa che mi ha colpito tantissimo è che tu hai reso un personaggio che per il lavoro, per la sua vita, per tutto, è in certo qual modo impermeabile, esternamente. Sara è sempre molto controllata, misurata, a domanda risponde, anche nel rapporto con Viola. Fanno dei passi, si incontrano, ma sempre con titubanza.

Ci sono molti diaframmi fra di loro. Non possono permettersi ulteriori ferite, sono quasi dissanguate. Se hanno un’altra delusione possono crollare nell’bisso. Fa molta tenerezza il rapporto tra di loro. Il rapporto tra Viola e Sara è forse la cosa più dolce del libro.


La contrapposizione tra Viola e Sara crea una sorta di contrasto generazionale, e mi chiedevo, come è stato per te entrare in due generazioni così diverse?

Le ho guardate da fuori. Io ho molto rispetto per i personaggi, quindi li faccio muovere per come li vedo muoversi. Non sono dentro nell’una e nell’altra, io le racconto solamente. Non ne capisco del tutto i pensieri. Loro guardando avanti e sono disperate entrambe. Le donne guardano avanti, le donne vivono guardando il futuro; noi invece guardiamo il presente. Allora noi ci salviamo perché guardiamo l’oggi per superare le difficoltà che abbiamo davanti. Le donne invece guardano la prospettiva, e sia Viola che Sara nella prospettiva sono distrutte, perché Sara rimarrà sola, Viola avrà un bambino che non sa come crescere. Allora l’appoggio fra le due diventa perfetto, proprio essendo donne.
Fossero stati due uomini, un uomo e un ragazzo, non avrebbero trovato la forza di sostenersi. Ma essendo due donne sì, perché Viola vede nel futuro qualcuno che l’aiuti con il bambino, che l’aiuti emotivamente. Sara vede in Viola il futuro che non ha. Vede in questo bambino un motivo per cu vivere.
 

Il loro rapporto è una delle cose che mi ha fatto riflettere di più perché non è facile né per Sara né per Viola avvicinarsi. È una cosa bella e mi ha fatto pensare molto il fatto che si incontrano al tramonto. È un’immagine molto bella: le generazioni a confronto in una continuità…

Sara è diffidente perché non ha mai parlato con una ragazza di quell’età. Sara, per esempio, io non l’ho scritto, ma ha delle curiosità, vorrebbe sapere del figlio. Non ha il coraggio di chiederlo a Viola. Viola capisce ma non glie lo dice. Sara vorrebbe chiedere ma siccome conosce la risposta – “l’hai lasciato e non ti meriti di sapere come era” – non chiede. Questa è una cosa che ho sentito forte mentre scrivevo, ma non l’ho scritta perché avrebbe deviato troppo dalla storia.
Questa era una delle cose che avrei voluto raccontare: l’altro step successivo di loro due. Come molte cose sono ancora dentro il rapporto tra Teresa e Sara: molti ricordi, molte acredini, gelosie, qualche invidia, un amicizia forte, il mancato sostegno. Lì ci sono molte altre cose che ho voglia di raccontare.

 
Per continuare sulla linea femminile dei personaggi, abbiamo una generazione che è quella di Sara e Teresa, poi passa per Dalinda e Viola, per arrivare alla piccola Bea, un altro personaggio interessantissimo del libro. A parte i personaggi in sé mi interessava sapere se ci sono dei modelli a cui tu hai attinto, a cui ti sei ispirato, dietro questi personaggi.

No, devo dire che non mi attengo a modelli perché sarebbe perdersi la parte più divertente della faccenda, che è appunto creare modelli, non utilizzarli. Avrei voluto raccontare Bea di più ma non l’ho potuto fare, sarebbe stata un’ulteriore ridondanza.
Come mi scappava di raccontare un altro personaggio femminile, che è la moglie di Molfino. La moglie di Molfino, con la sua mancata maternità, e con la rabbia della mancata maternità, e la lucida follia del compensare questa mancata maternità. Mi pareva un personaggio interessante. Ma un libro è un libro, non sono due.
 

Hai dato la tua abilità di scrittore per farci comprendere che ogni nostra diversità è positiva.

Sì, sono convinto che questo sia un altro dei temi centrali di questo romanzo. Diversità e diseguaglianza sono due concetti diversissimi. Le diversità sono una ricchezza e le diseguaglianze una tragedia, sono la povertà. Le diversità vanno accettate e messe nella condizione di funzionare. Le diseguaglianze vanno risolte, devono essere azzerate. Questo fattore reale dovremmo averlo tutti quanti presente costantemente. È proprio una disposizione.

Approfitto di questo per dire una cosa di cui sono convintissimo: occhio al romanzo nero italiano. Oggi il romanzo nero italiano è la sezione della letteratura italiana contemporanea più viva, più feconda, più forte, più diversificata, più plurale, che noi abbiamo in questo momento. Lo dico da lettore; io sono un lettore famelico e non parlo di me, parlo del movimento. Io trovo letteratura nelle pagine di Massimo Carlotto, di Giancarlo De Cataldo, di Carlo Lucarelli, di Antonio Manzini, di Marco Malvaldi, di Francesco Recami, di Bruno Morchio, di Enrico Pandiani, di Donato Carrisi, di Gianrico Carofiglio, di Marcello Fois, di Camilleri ovviamente, di Santo Terzese, di Mimmo Gangemi, e di regione in regione, tutti. Noi raccontiamo la diversificazione di un paese profondamente diverso. Questo paese giovane, che ha 150 anni e che ha avuto 150 anni di storia in cui non è stato fatto niente per renderlo un paese unito. Per cui Marco Vichi e Valerio Varesi scrivono da paesi diversi.
Il giallo scandinavo è uguale, sono di nazioni diverse ma sono tutti uguali, per carità belli, ma tutti uguali; sono di nazioni diverse ma sono omogenei.

Noi siamo di città a un’ora di freccia rossa, e io e Giancarlo De Cataldo scriviamo in una maniera radicalmente opposta e di luoghi opposti. Credo che questa sia una ricchezza straordinaria che verrà ricordata. Noi abbiamo avuto delle individualità straordinarie: Sciascia, Frutteto e Lucentini Scerbanenco, Veraldi, lo stesso Umberto Eco nel “Nome della rosa”. Abbiamo avuto personalità straordinarie ma un movimento così forte e coeso, Grazieri, Biondillo, Crapanzano, Bonazzi, potrei nominarne centinaia, vi rendete conto? E siamo anche in ottimi rapporti tra di noi, il che non è secondario, non è banale. Non viene percepita la rivalità perché siamo talmente diversi, che se uno legge Manzini legge anche me. Quale rivalità potrebbe esserci in scrittori così diversi? Ben venga il successo dell’uno perché porta in libreria la gente, e se la gente va in libreria più probabilmente mi legge, perché se non entra in libreria non mi leggerà mai. Quindi è questa la bellezza di questo movimento e del rapporto forte che si è creato.

È un momento bello, questo; ce lo dobbiamo ricordare perché raccontiamo il paese e non è una cosa da poco. Ecco perché la collana Nero Rizzoli è un fattore importantissimo. Io trovo questo evento molto importante nel nostro settore, cioè il fatto che ci sia una collana dedicata all’interno di una delle più grosse case editrici: se ci pensate, le case del noir fino a ora sono condivise, sono condomini: in e/o, in cui c’è una bella quota di noir, però non c’è solamente quello; Stile Libero, dove siamo in tanti, è diventata sempre di più una vera e propria casa editrice generalista; in Sellerio c’è molto noir però insieme ad altri libri.
Quindi avere una riconoscibilità fisica dei libri neri e solo quelli, secondo me è un passo avanti. È uno dei motivi principali per cui io ho voluto pubblicare Sara così: perché c’era una casa, visibile, riconoscibile in libreria. Leggete Corrado De Rosa, per esempio, è nuovo; leggerete Piergiorgio Pulixi, il più bravo di tutti della sua generazione.

La forza che trovo in questi aspetti della letteratura italiana contemporanea non li trovo in altri. Trovo stanchezza, e soprattutto una spiacevolissima tendenza degli autori a raccontare se stessi, scrivere perennemente la propria autobiografia. Invece sono pazzamente innamorato della strada, sono innamorato del fatto che si racconti l’esterno, le vite degli altri. Le vite degli altri vanno raccontate, non la nostra, perennemente, o i libri scritti per dire quello che l’autore pensa della vita. Io sono per le vicende, i fatti.


In una intervista avevi detto che nel 2020 avresti smesso di scrivere. Sara ti ha fatto cambiare idea?

Avevo detto che avrei smesso di scrivere le serie, Ricciardi e i Bastardi. Di Ricciardi ne ho ancora due, dei Bastardi altri tre. Credo che questi esauriranno le serie dei Bastardi e di Ricciardi; poi vorrei rispolverare questo antico leggendario istituto che si chiama pensione.  

a cura di Flavia Scotti


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