Le recensioni di Wuz.it

Mille splendidi soli

Khaled Hosseini

“Laila sapeva che in città, da qualche parte, qualcuno era appena stato ucciso e che un velario di fumo nero avvolgeva qualche edificio che era crollato lasciando una massa informe di macerie.
Il mattino successivo, la strada sarebbe stata disseminata di cadaveri. Alcuni sarebbero stati raccolti. Altri no. Poi i cani di Kabul, che ormai non disdegnavan la carne umana, avrebbero banchettato.”


Spesso per tutti noi parlare di Afghanistan è scontrarsi su diverse posizioni politiche, sulla partecipazione o meno dei militari italiani al conflitto, sulle strategie internazionali e sui rapporti di potere tra stati. Si parla anche di terrorismo e della più opportuna lotta contro questo nemico, si discute, tranquillamente seduti nelle nostre case, negli uffici, nei caffè cittadini… e invece Afghanistan è soprattutto dolore e morte, è sofferenza e vittime innocenti, è una guerra infinita che ha distrutto villaggi e città, è la perdita della speranza.
E per le donne? Umiliazioni, discriminazioni, botte e violenze. Da troppi anni sono proprio loro ad aver sofferto di più e ad aver subito, oltre tutto il male che le varie guerre susseguitesi hanno arrecato a tutti gli afgani, anche una  particolare forma di guerra privata: quella che gli uomini, con padri e mariti in prima fila, hanno condotto nei loro confronti, complice e in alcuni periodi, mandante e fomentatore, l'autorità pubblica.
In questo secondo romanzo Hosseini parla di tutto ciò attraverso le vicende di due donne (diverse per estrazione sociale e culturale), vicende che a un certo punto si intrecciano e che diventano una sola storia.  

Mariam vive con la madre in un casolare desolato, una kolba, isolato dal resto della città di Herat, in povertà e desolazione, avendo come unica gioia, la visita settimanale del padre. Mariam è una harami, una bastarda, una figlia mai voluta che il ricco padrone di casa, che già aveva tre mogli e dieci figli legittimi, aveva avuto dalla giovanissima serva. La bambina cresce con un certo risentimento nei confronti della madre che le continua a presentare la negatività della vita e di quell’uomo che tanto crudelmente si era sbarazzato di loro due. Ma solo quando, ormai adolescente, fugge per raggiungere la casa paterna e ne viene respinta, e al suo ritorno trova la madre morta suicida, Mariam inizia a capire che quell’uomo da sempre amato per l’aura di ricchezza e di affetto da cui si circondava nelle sue visite, in realtà l’aveva sempre tradita. Quando poi quindicenne viene data in moglie a un uomo vecchio e sgradevole, che abitava in una città lontana, a Kabul, capisce che la volontà è quella di sbarazzarsi di lei. Inizia la sua triste e angosciante vita coniugale: viene costretta ad indossare il burka, a non parlare con nessuno, a servire come una schiava il marito/padrone. E la situazione peggiora quando la ragazza non riesce a portare a termine nessuna delle gravidanze.
In una casa vicina la vita invece scorre in modo diverso. Là vivono un ex professore con la moglie e la figlia. La loro vita di intellettuali è stata sconvolta dalla partenza dei due figli maggiori arruolatisi tra i mujeidin per combattere i sovietici occupanti l’Afghanistan. La madre è come se ignorasse la presenza della figlia più piccola, Laila, e questo si aggrava in modo tragico quando giunge la notizia che i due figli maggiori sono morti in combattimento. Laila ha al suo fianco la mite figura paterna, un uomo buono e intelligente che, pur odiando la presenza comunista nel paese, si rende conto che forse quello per una donna è il momento migliore per realizzarsi come persona. Ma a fianco della bionda bambina c’è un’altra presenza importante, l’amico, il fratello e poi (gli anni passano e intanto la guerra, in varie forme, prosegue)l’innamorato Tariq. Il loro legame è fortissimo e quando lui deve andarsene in esilio in Pakistan con la famiglia perché la guerra (per cacciare i russi e tra le varie etnie) sta devastando la città, il loro amore e il terrore della separazione li porta ad avere un unico intenso rapporto. Anche la famiglia di Laila sta per partire ma una bomba distrugge la casa e uccide entrambi i genitori. Ferita, Laila viene accolta e curata nella casa di Mariam dove ben presto si accorge di essere incinta, cosa che la costringe ad accettare la proposta di matrimonio del vecchio e sempre più violento Rashid. Mariam non tollera questa nuova moglie, amata e accudita dal vecchio violento, ma quando anche la ragazza cade in disgrazia avendo partorito una femmina, quando la violenza dell’uomo di abbatte anche su di lei, le due donne iniziano ad allearsi tanto che…
La trama prosegue con drammatici colpi di scena, ma al di là della storia quello che avvince alla pagina è la capacità di Hosseini di entrare nell’animo di questa donne sventurate, simbolo di tutte le donne che in quel paese hanno subito ogni sorta di violenza e sopraffazione, emoziona la sua sensibilità nel presentare l’alternarsi di speranze e amare delusioni, nel mostrare come quel paese martoriato abbia contato troppe vittime innocenti. Anche la positività del finale, il clima di ricostruzione e di possibile, almeno parziale normalità, purtroppo è in duro contrasto con le immagini e le notizie che proprio in quest’ultimo periodo giungono dall’Afghanistan, con la visione di tante donne coperte da un burka che forse nasconde, oltre alla loro identità, anche i segni delle percosse che padri e mariti hanno loro inflitto. In ugual misura le esplosioni, le bombe, i morti innocenti, continuano ad essere la dolorosa quotidianità di un paese in cui più di una generazione è nata con la guerra e non ha mai conosciuto la pace.


Troppi anni di dolore

1933-1973: ultimo periodo di stabilità dell'Afghanistan. La nazione era sotto il governo di Re Zahir Shah. Nel luglio 1973, però, il cognato di Zahir Sardar Mohammed Daoud lanciò un colpo di stato incruento a seguito del quale il re fu cacciato e venne proclamata la repubblica.
1978: Daoud e tutta la sua famiglia vennero assassinati, quando il Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan (comunista), prese il potere con un colpo di stato (27 aprile). All'interno del partito si aprì subito un forte contrasto tra la fazione Khalq (la più radicale) e quella Parcham. In una prima fase fu la prima fazione a prevalere con il leader Hafizullah Amin.
1979: il 24 dicembre l'Unione Sovietica intervenne militarmente contro il governo di Amin.
Ecco qui di seguito l’elenco delle guerre che da quel momento hanno sconvolto l’Afghanistan:

1979-1989
: truppe sovietiche (e governative) contro guerriglia mujahedin (sostenuta dagli Stati Uniti)
1989-1996: conflitti armati tra mujaheddin tagiki, uzbeki, hazari, pashtun
1996-2002: taliban al governo (sostenuti da Pakistan e Arabia Saudita) contro la  resistenza dei mujahedin tagiki, uzbeki e hazari uniti nell'Alleanza del Nord (sostenuta da Russia, India, Iran, Tajikistan e Uzbekistan)
2002-OGGI: truppe americane e governative (del governo di Hamid Karzai) contro la resistenza dei taliban e dei miliziani dell’Hezb-i Islami (di Gulbuddin Hekmatyar) nelle province sud-orientali al confine col Pakistan; milizie uzbeke del Jumbesh-i Milli (di Abdul Rashid Dostum) contro milizie tagike del Jamiat-i Islami (di Mohammad Ustad Atta) nelle province settentrionali del Paese.

Dal 2002 a oggi la guerra ha causato altri 11mila morti, di cui 6mila solo nel 2006.
Dall'inizio del 2007 i morti sono almeno 1.119 (274 civili, 585 talebani o presunti tali, 213 soldati e poliziotti afgani, 47 soldati della Nato).


Le prime pagine


Uno

Mariam aveva cinque anni la prima volta che sentì la parola harami.
Accadde di giovedì. Doveva essere per forza un giovedì, perché ricordava di essersi sentita inquieta e pensierosa tutto il giorno, come le capitava di sentirsi soltanto di giovedì, il giorno in cui Jalil veniva a trovarla alla kolba. Per far passare il tempo sino al momento del suo arrivo, quando finalmente l'avrebbe visto salutare con la mano mentre attraversava la radura con l'erba alta sino al ginocchio, Mariam era salita su una sedia e aveva tirato giù il servizio da tè cinese della madre, Nana. Il servizio da tè era la sola reliquia che Nana conservasse della propria madre, morta quando lei aveva due anni. Custodiva con venerazione ciascuno dei pezzi di porcellana bianca e azzurra: la teiera dal becco elegantemente ricurvo, i fringuelli e i crisantemi dipinti a mano, sulla zuccheria il drago che doveva allontanare il malocchio.
Fu quest'ultimo pezzo che scivolò dalle dita di Mariam andando in frantumi sulle assi di legno del  pavimento della kolba.
Quando Nana vide la zuccheriera, si fece rossa in viso, il labbro superiore ebbe un tremito e gli occhi, sia quello buono che quello guasto, fissarono Mariam con uno sguardo inespressivo, immobile. Era così fuori di sé da far temere a Mariam che il jinn sarebbe entrato nuovamente nel corpo della madre. Ma il jinn non si presentò, non quella volta almeno. Nana, invece, afferrò Mariam per i polsi, se la tirò vicina e a denti stretti le disse: «Sei una piccola, goffa barami. Questa è la ricompensa per tutti i sacrifici che ho fatto per te. Rompere l'unica mia eredità, piccola goffa harami».
A quel tempo, Mariam non aveva afferrato. Non conosceva il significato della parola harami, bastardo. E non era abbastanza grande per rendersi conto dell'ingiustizia, per capire che la colpa era di chi aveva messo al mondo l'harami, non dell'harami stesso, il cui solo peccato era di essere nato. Mariam aveva avuto il sospetto, dal modo in cui Nana aveva pronunciato la parola, che l'harami fosse una cosa brutta, schifosa, come un insetto, come gli scarafaggi che correvano veloci mentre Nana li copriva di maledizioni scopandoli fuori dalla kolba.
Crescendo, Mariam aveva capito. Era il modo in cui Nana proferiva la parola - sputandogliela in faccia - che l'offendeva nel profondo. Allora aveva compreso cosa voleva dire Nana, che un harami era qualcosa di indesiderato; che lei, Mariam, era una figlia illegittima che mai avrebbe potuto rivendicare di diritto le cose che gli altri possedevano, come l'amore, la famiglia, la casa, l'essere accettata.
Jalil non la chiamava mai harami. Jalil diceva che lei era il suo fiorellino. Gli piaceva prenderla in braccio e raccontarle storie, come la volta in cui le aveva detto che Herat, la città dove Mariam era nata nel 1959, un tempo era stata la culla della cultura persiana, la patria di scrittori, di pittori e di sufi.
«In questa città non si poteva stendere una gamba senza dare una pedata in culo a un poeta» le aveva detto ridendo.
Jalil le aveva raccontato la storia della regina Gauhar Shad, che nel XV secolo aveva eretto i famosi minareti, come un'ode alla sua benamata Herat. Le aveva descritto i campi verdi di grano che circondavano la città, i frutteti, le vigne cariche di floridi grappoli, gli affollati bazar dai soffitti a volta.
«C'è un albero di pistacchio,» disse Jalil un giorno «e sotto l'albero, Mariam jo, è sepolto niente meno che il grande poeta Jami.» Si chinò su di lei sussurrando: «Jami è vissuto più di cinquecento anni fa. Davvero. Ti ho accompagnata una volta, a vedere l'albero. Eri piccola. Non puoi ricordare».
Era vero. Mariam non ricordava. E pur vivendo per i primi quindici anni della sua vita a un passo da Herat, non avrebbe mai visto quel famoso albero. Non avrebbe mai visto da vicino i famosi minareti e non avrebbe mai colto i grappoli delle vigne di Herat, né avrebbe mai passeggiato nei suoi campi di grano. Ma ogni volta che Jalil le raccontava quelle storie, Mariam lo ascoltava estatica. Fremeva di orgoglio ad avere un padre che sapeva cose simili.
«Bugie belle e buone!» diceva Nana dopo che Jalil se n'era andato. «Un pezzo grosso che le spara grosse. Non ti ha mai portato a vedere nessun albero. E tu non lasciarti incantare. Ci ha tradite, il tuo adorato padre. Ci ha buttate fuori. Ci ha buttate fuori dalla sua grande casa lussuosa come se non contassimo nulla per lui. L'ha fatto a cuor leggero.»
Mariam ascoltava compunta. Non avrebbe mai osato dire a Nana quanto le dispiaceva che parlasse di Jalil a quel modo. La verità era che, accanto a lui, Mariam non si sentiva affatto una harami. Per un paio d'ore ogni giovedì, quando Jalil veniva a trovarla, tutto sorrisi, doni e affettuosità, Mariam sentiva di meritare tutta la bellezza e la bontà che la vita aveva da offrire. E per questo amava Jalil.


L'autore



04 giugno 2007 Di Grazia Casagrande

Mille splendidi soli
Mille splendidi soli Di Khaled Hosseini;

A quindici anni, Mariam non è mai stata a Herat. Dalla sua "kolba" di legno in cima alla collina, osserva i minareti in lontananza e attende con ansia l'arrivo del giovedì, il giorno in cui il padre le fa visita e le parla di poeti e giardini meravigliosi, di razzi che atterrano sulla luna e dei film che proietta nel suo cinema. Mariam vorrebbe avere le ali per raggiungere la casa del padre, dove lui non la porterà mai perché Mariam è una "harami", una bastarda, e sarebbe un'umiliazione per le sue tre mogli e i dieci figli legittimi ospitarla sotto lo stesso tetto. Vorrebbe anche andare a scuola, ma sarebbe inutile, le dice sua madre, come lucidare una sputacchiera. L'unica cosa che deve imparare è la sopportazione. Laila è nata a Kabul la notte della rivoluzione, nell'aprile del 1978. Aveva solo due anni quando i suoi fratelli si sono arruolati nella jihad. Per questo, il giorno del loro funerale, le è difficile piangere. Per Laila, il vero fratello è Tariq, il bambino dei vicini, che ha perso una gamba su una mina antiuomo ma sa difenderla dai dispetti dei coetanei; il compagno di giochi che le insegna le parolacce in pashtu e ogni sera le dà la buonanotte con segnali luminosi dalla finestra. Mariam e Laila non potrebbero essere più diverse, ma la guerra le farà incontrare in modo imprevedibile. Dall'intreccio di due destini, una storia che ripercorre la storia di un paese in cerca di pace, dove l'amicizia e l'amore sembrano ancora l'unica salvezza.

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