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Miriam “Mama” Makeba: la scomparsa di una leggenda africana

Essere la voce di una nazione che parla al resto del mondo, è una dura missione per ogni artista. Essere la voce di un intero continente lo è ancora di più. Entrambi fardelli di cui la cantante sudafricana Miriam Makeba si era fatta carico con forza e volontà. Nonostante avesse continuato ad affermare di non essere una cantante politica, diventò “Mama Africa” con tenacia da attivista e orecchio da cantante.

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La sua vita

Makeba a Castel Volturno, 9 novembre 2008, l'ultimo concerto

Nata a Johannesburg il 4 marzo 1932, è morta domenica 9 novembre 2008, a 76 anni, mentre lasciava il palco di un concerto contro la criminalità organizzata a Castel Volturno (vicino a Napoli) dedicato a Roberto Saviano, lo scrittore che ha ricevuto minacce di morte dalla mafia. Dopo aver cantato per mezz’ora per l’autore di Gomorra insieme ad altri cantanti, ha avuto un malore ed è stata portata all’ospedale locale, dove è morta in seguito a un attacco cardiaco. Secondo il comunicato di lunedì 10 novembre del ministro degli esteri sudafricano Nkosazana Dlamini Zuma “Mama Makeba comunicava un messaggio positivo al mondo sulla lotta dei sudafricani e la sicura vittoria sulle forze oscure del colonialismo dell’apartheid attraverso l’arte del canto”. Miriam Makeba, che trattava i suoi spettatori come fossero una sola comunità mondiale, cantava in diverse lingue, dal suo Xhosa alla lingua franca dell’Africa dell’est, lo swahili, al portoghese, allo yiddish.
Nella sua vita aveva anche preso importanti posizioni: contro l’apartheid del Sudafrica e a favore di un movimento mondiale contro il razzismo, fino al punto di far deragliare la sua carriera quando, dopo il divorzio da Hugh Masakela, sposò negli anni ’60 il potente avvocato Stokely Carmichael, leader radicale delle Pantere Nere, da cui si separò a metà degli anni ’70.


Il matrimonio di Makeba e Carmichael

Anche durante trent’anni di vita in esilio – il governo del Sudafrica revocò il suo passaporto nel 1960 – diceva che il Sudafrica era la sua casa e il suo fondamento come artista. Infatti, Makeba fu spogliata della cittadinanza sudafricana dopo essere diventata un’icona anti-apartheid e non le fu nemmeno permesso di entrare per assistere al funerale della madre. Ritornò in patria solo dopo il rilascio dalla prigione di Nelson Mandela, nel 1990, e quattro anni più tardi realizzò un progetto di beneficenza al fine di raccogliere fondi per proteggere le donne nel Sudafrica. Il suo primo concerto in Sudafrica (1991) ebbe un successo strepitoso e questo fu il preludio di un tour mondiale che comprese Stati Uniti ed Europa. Molti riconoscimenti le sono venuti in seguito al suo esilio: fu ricevuta da diversi leader mondiali come Hailé Selassie, Fidel Castro, John F. Kennedy e François Mitterrand. Makeba ha inoltre fatto un tour con grandi cantanti come Paul Simon, Nina Simone, Hugh Masekela e Dizzy Gillepsie. In anni recenti era ambasciatrice di buona volontà per il Sudafrica e la FAO delle Nazioni Unite. Nel marzo 2008 aveva posto l’accento sulla triste condizione delle donne vittime della violenza sessuale durante la sua visita nella Repubblica democratica del Congo.


La sua voce e la sua musica

La sua voce, o meglio voci, erano inarrestabili. Makeba è stata descritta come la prima superstar africana. Prima divenne famosa professionalmente con i Manhattan Brothers nei primi anni ’50 e poi viaggiò all’estero per esibirsi nel ruolo femminile del musical jazz sudafricano King Kong. Promossa da Harry Belafonte, il grande pubblico la conobbe per “Pata Pata” e “The click song”. Altre canzoni di successo popolare e commerciale includono “Welela”, “Malaika” e diversi altri motivi che erano perfetti inni del mondo nero nella turbolenta ricerca negli anni ’60 di una voce capace di dare valore all’espressione black is beautiful.
Poteva essere soave, cadenzata e girlish; poteva essere civettuola o esuberante, ma la sua voce manteneva anche lo strato di tagliente e gelida esortazione: il tono delle canzoni del villaggio e le invocazioni di spiriti, tradizioni dalla nascita – canzoni che aveva rivisitato nel suo album del 1988, “Sangoma” (Warner Brothers). Del suo vasto repertorio non facevano parte testi di evidente protesta ma canzoni dolci e ninnenanne, canzoni di festa e richiami all’unità, una volontà indomabile di sopravvivenza: una tenacia gioiosa che poteva trasmettere sia memoria culturale che diretta sfida. Non c’è bisogno di capire la lirica delle sue canzoni per apprezzare sia l’intensità del loro messaggio che l’ingenuità che ne sono alla base: ballate e tradizioni popolari che evocano memorie d’innocenza perduta.


Makeba durante un concerto nel 1978

Apparizione esotica negli anni ’60, ottimista e già una star nel Sudafrica, entusiasmò l’Europa e poi arrivò negli Stati Uniti con l’aiuto di Harry Belafonte. Aveva già, coraggiosamente, partecipato al documentario anti-apartheid, “Come Back, Africa”. In esilio rimase ambasciatrice, mostrando all’America e al mondo un’Africa piena di suoni vibranti e irresistibili: i loping mbube grooves che Paul Simon avrebbe riscoperto decenni dopo, il flusso delle parole africane, la natura della sua voce.
I video su YouTube del 1966 mostrano Makeba, con i suoi musicisti in giacca e cravatta, esibirsi con un lungo vestito elegante, a volte con fantasie a pelle di leopardo: supper club africana che è a casa in ogni continente. La sua musica era diversa ma non oscura, soprattutto perché era introdotta dal suo carisma. Prima che si cominciassero a diffondere termini quali world music, lei la stava già creando. Non fu mai una purista, ma sempre orgogliosa delle proprie radici: nella sua autobiografia, “Makeba: my story”, scrive “ho mantenuto la mia cultura. Ho mantenuto la musica delle mie radici. Attraverso la mia musica sono diventata la voce e l’immagine dell’Africa e della gente”.
Makeba raggiunse il successo durante le lotte americane per i diritti civili e si esibì alle marce di Martin Luther King Jr.; per ricordare che la discriminazione si estende oltre gli Stati Uniti denunciò l’apartheid in un discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1963. É impossibile chiedersi cosa pensava quando cantò “Pata Pata” nel 1967, con parti di narrazione in inglese – “‘Pata Pata’ è il nome di una danza che facciamo andando a Johannesburg” – ben sapendo che non sarebbe stata la bentornata a Johannesburg fino al cambio di regime.


Gli ultimi anni

Makeba con Paul Simon e Hugh Masakela in tour con Graceland
Quando le fu vietato di tornare in Sudafrica, si stabilì in Guinea, nell’Africa dell’ovest, dove partecipò a un movimento assistito dal governo per la authenticité musicale – che fondeva stili tradizionali con nuovi strumenti – e lasciò che il suo repertorio si allargasse ulteriormente. Per un po’ di tempo si unì anche alla delegazione delle Nazioni Unite della Guinea, vincendo il Premio Dag Hammarskjöld per la pace nel 1986. Dopo la morte della sua unica figlia Bongi (1985), Makeba si trasferì a Bruxelles. Makeba non ha fatto la carriera di una cantante pop, che pensa alle hit, ai trend e ai mercati. Lei invece ha seguito coscienza e storia, diventando un simbolo d’integrità e panafricanismo – dando il suo imprimatur, per esempio, collaborando al tour dell’album “Graceland” di Paul Simon del 1987, che portò la musica sudafricana in tutto il mondo, ma che implicitamente puntava alla questione dell’apartheid che ancora vigeva in patria.
In cinquant’anni di musica, fino all’ultimo album in studio, “Reflections”, nel 2004 e i concerti fino al giorno in cui è morta, ha cantato con una voce inconfondibilmente africana e altrettanto inconfondibilmente coraggiosa.




Miriam Makeba: articoli e notizie su Wuz.it
La discografia


Fonti:
articolo Taking Africa With Her to the World, NY Times (10 novembre 2008)
L'observateur, All Africa, This day, Vanguard

Traduzione di Paola Pedrinazzi


17 novembre 2008  

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