Le recensioni di Wuz.it

Lo spazio bianco

Valeria Parrella

""Abbiamo avuto confidenza con la morte, quella che imparano i soldati in guerra.
Io me la sono augurata a volte, che venisse a mettere fine all'angoscia, che arrivasse riconoscibile e chiara, senza più dubbi né tentennamenti.
E questo pensiero viveva nello stesso spazio della speranza.""


Scusate se dissento da molte opinioni che critici e recensori in questi giorni hanno espresso: questo non è un romanzo su Napoli, questa è una tragedia greca.
Ma ci chiediamo mai cosa avrebbero scritto oggi Eschilo, Euripide o Sofocle? Come avrebbero immaginato la mimesi, la catarsi, le antinomie e la nemesi?
Quali sono i nuovi drammi in cui la nostra esistenza è immersa e che potrebbero generare una nuova mitologia? 
Uno di questi indubbiamente è la maternità ""inconsapevole"", la ricerca o il rifiuto di questa maternità e per contro i nuovi modi di nascere e sopravvivere, o morire. Da un lato la fecondazione assistita e la via crucis interminabile che comporta, dall'altro l'aborto, che è sempre sofferenza e dolore per la donna e ancora le nuove opportunità di sopravvivenza che la scienza offre ai nati prematuri: una gioia ma al tempo stesso un'incognita, un punto di domanda su un futuro con molta probabilità segnato dall'handicap, un problema che dovranno gestire le famiglie (e in modo particolare, come sempre, le madri) che al momento della scelta non sono informate.

Un nuovo momento di passaggio verso la nascita o verso la morte, un nuovo limbo sono i reparti di terapia intensiva neonatale, dove centinaia di donne vivono ogni giorno appese all'esile filo della speranza che tiene in vita i loro figli.

Ma potete immaginare un dramma maggiore di quello di una madre (Maria nel romanzo, ma anche Valeria) il cui figlio esce dal suo corpo prima del tempo e che lo vede svilupparsi non nel suo utero ma in una incubatrice che lo sostituisce? una madre che sente il cordone ombelicale ancora presente ma che non può donare a quella creaturina lo stesso calore fisico che l'avrebbe portato al termine della gravidanza e che ogni giorno, impotente, ascolta i suoni di quelle macchine che lo monitorizzano, che lo tengono in vita, che lo aiutano a sopravvivere ma che potrebbero anche essere improvvisamente impotenti e permettergli di morire? 
Pensate all'angoscia di questa madre che ogni giorno ascolta il ritmo e le onde dei monitor e che saprebbe individuare ogni minima difformità in quel ritmo e in quelle onde, ma è terrorizzata all'idea di doverlo notare.
Pensate all'abbandono di un padre (nel romanzo) che non prende coscienza, che non si assume le responsabilità, che non compare. L'unica persona con cui davvero condividere questo dolore, questa sofferenza, l'unico interessato in prima persona è assente. La tragedia è al suo culmine.

Null'altro ha più valore se non Irene, l'esserino racchiuso in quella culla di plexiglas sul cui destino nessuno sa ancora dare responsi.

Pensate ai medici, deus ex machina moderni, che come tali agiscono e nei confronti dei quali la donna è impotente, completamente nelle loro mani e in balia di cure sperimentali e dinamiche sconosciute.
E pensate (qui sì) a un contesto difficile come quello napoletano che avvolge la madre tutte le volte che esce da quell'ospedale in cui trascorre tante ore della sua giornata, accanto alle altre madri nella sua stessa condizione. Fuori ""volteggiano come avvoltoi i servizi sociali"", ma aspettano quelle che hanno partorito figli in astinenza, ed è un'altra storia, un altro dramma, una tragedia greca con un diverso titolo.

Napoli è il coro, importante per sottolineare momenti e passaggi ma non il centro della vicenda. Sono gli allievi della scuola serale in cui la mamma di Irene insegna, sono gli amici e i parenti, i panorami spettacolari e le piazze e i vicoli degradati, lo Stato e l'individuo...
Napoli è lo spazio in cui la bambina vivrà ma che Maria ancora non sa come verrà riempito, perché la strada verso il sole è ancora molto lunga.

Questa è una tragedia greca, e non credo sia un caso che si apra con un Prologo.


Le prime pagine

                                                                          Prologo

   Ho provato. Aspettando la metropolitana per l'ospedale, tutti i giorni, ho provato a leggere saggistica. I primi tempi ci sono riuscita, perché non avevo altro se non la mia testa. Ed era una testa molto esercitata sui libri.
   Nei pomeriggi lunghissimi delle medie, tra la fine dei compiti e l'inizio della sera, la stanza si dilatava: qualunque rumore arrivasse dai capannoni delle conserviere che ci soffocavano l'aria, qualunque rancore i miei si rilanciassero da un estremo all'altro del corridoio, venivano assorbiti dal silenzio del tempo fermo. Io leggevo.
   La testa si era esercitata così, a fidarsi solo di se stessa. E allora ritornava nell'equivoco di bastarsi da sola ogni volta che si sentiva tradita dalla realtà.
   Però stavolta non riuscivo a leggere: c'era una buca a ogni parola scritta bene, inciampavo nei righi di qualunque romanzo, con un'agitazione profonda. Allora avevo cercato rifugio in un altro livello, che non lasciasse trapelare il dolore, leggevo saggistica. Avevo scelto un tema che fosse preciso come la matematica e sanguinoso come una rivoluzione. Era il laicismo, ma sarebbe potuto essere altro. Ero entrata in una libreria della città vecchia che non frequentavo, così che nessuno avrebbe potuto chiedermi come stavo, e avevo comprato.
   Dovevo essere metodica. Non rinunciare a un libro fino all'ultimo, leggere tutto e anche sottolineare, glossare affianco.
   All'inizio ha funzionato, ho creduto di avere voglia, ogni mattina, di prendere la metropolitana per l'ospedale: per leggere avanti. Poi ho creduto meno, più avanti mi distraevo. Dopo una settimana appena, dormivo una veglia intermittente con la testa appoggiata all'indietro sul finestrino: le persone entravano e uscivano, io toccavo la borsa e ci sentivo dentro il libro, dentro il libro sentivo una matita e mi dicevo «Ho sonno perché il corpo ha sonno, ma la testa è salva».
   Invece avevo perso anche quella. Devo averla persa in un viaggio di ritorno, dall'ospedale a casa, in un pomeriggio di quelli che quando riemergevo in superficie fuori era già scuro, e non c'era manco il tempo di fare la spesa. Dev'essere stato a via Foria, lungo i giardini da poco rifatti e già vecchi e pure ancora non finiti, come succede a tutte le cose della città. A occhio direi che dev'essere stato lì, e di sera, perché io tornavo solo la sera dall'ospedale, a parte qualche volta che scappavo e non ci andavo proprio, e allora riuscivo anche a vedere il mondo di giorno. Il mondo fuori dall'ospedale.
   Di una vacanza a Lampedusa, quando vacanza significava perdere il conto di tutto, ricordo la signora delle pulizie: disse che la mia città è bellissima.
   - E quando c'è stata? - le chiedevo io, nascondendo le mutande nei cassetti.
   - Non ci sono stata: l'ho vista da una stanza d'ospedale.
   E infatti il panorama, specie dai padiglioni di dietro, è spettacolare. L'ho scoperto il giorno in cui cercavo un modo per fumare senza dover scendere giù. Trovai un finestrino lungo e stretto, anche alto, ma stava nel bagno e quindi potevo salire sulla tazza. L'ho diviso tutto il tempo con un colombo che ci aveva fatto il nido. Per fortuna erano già i giorni in cui avevo perso la testa, perché a me i colombi hanno sempre fatto schifo: poveretti, non sono né meglio né peggio di altri, ma in città sono tanti, troppi. E comunque quando trovai il finestrino con vista convivemmo in silenzio quasi totale.
   Da lì ho guardato la città per tre mesi tutti i giorni, a sbuffi regolari, nell'arco di undici ore: ho fatto mille volte il gioco dell'indovina dov'è il duomo - indovina dov'è la galleria, indovina dov'è il decumano - e non mi sono annoiata mai.
   La puzza della nicotina non si toglieva dalle mani nemmeno dopo il lavaggio antisettico, nemmeno dopo aver tirato su le maniche e insaponato bene fino ai gomiti, per due minuti, come recitava la normativa della terapia intensiva. Trasudava dal camice azzurro appena mi emozionavo, superava la mascherina, se il respiro si affannava nell'angoscia.
   Qualcuno me lo ha rinfacciato. Un dottorino con gli occhi molto blu mi ha chiesto una sigaretta, e io gliel'ho offerta come si passa il pane a tavola.

©  2008 Giulio Einaudi editore

Valeria Parrella - Lo spazio bianco
112 pag., 14,80 € - Edizioni Einaudi 2008 (Supercoralli)
ISBN 978-88-06-19096-5


L'autrice



29 febbraio 2008 Di Giulia Mozzato

Lo spazio bianco
Lo spazio bianco Di Valeria Parrella;

Maria ha superato da poco i quarant'anni, vive a Napoli, lavora come insegnante in una scuola serale e un giorno, al sesto mese appena di gravidanza, partorisce una bambina che viene subito ricoverata in terapia intensiva neonatale. Dietro l'oblò dell'incubatrice Maria osserva le ore passare su quel piccolo corpo come una sequenza di possibilità. Niente è più come prima: si ritrova in un mondo strano di medicine, donne accoltellate, attese insensate sui divanetti della sala d'aspetto, la speranza di portare sua figlia fuori da lì. Nei giorni si susseguono le mense con gli studenti di medicina, il dialogo muto con i macchinari e soprattutto il suo lavoro: una scuola serale dove camionisti faticano su Dante e Leopardi per conquistarsi la terza media. La circonda e la tiene in vita un mondo pericolante: quello napoletano, dove la tragedia quotidiana si intreccia con la farsa, un mondo in cui il degrado locale è solo la lente d'ingrandimento di quello nazionale.

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