Recensione di Matteo Baldi
Cari lettori, lasciate che vi presenti il vostro prossimo peggior amico, Saul Karoo.
Intelligente, cinico, abile conversatore, decisamente sovrappeso, Karoo è un uomo che si trova un passo oltre il mezzo del cammin di nostra vita, ma non se ne dà per inteso. Il suo divorzio sembra assumere ogni giorno di più il respiro e l’ampiezza di una grande storia d’amore, o le proporzioni di una performance artistica cui manca solamente un pubblico per poter essere considerata tale.
Non parliamo poi del rapporto che Karoo ha con il figlio, un sensibile e intelligente ragazzo che vorrebbe soltanto passare un po’ di tempo con il padre, e ad ogni richiesta timidamente avanzata in tal senso si vede opporre fulgidi esempi dell’arte di cui questi è supremo maestro: l’arte della fuga.
Già. Saul Karoo rifugge come la peste ogni intimità, preferendo trincerarsi dietro un’ironia che non risparmia nulla e nessuno, e della quale è egli stesso il principale bersaglio.
Quando facciamo la sua conoscenza, nel bel mezzo di un mondanissimo party nell’Upper West Side, Karoo è alle prese con gli effetti devastanti di una sindrome che lo affligge da qualche mese. È diventato completamente immune agli effetti dell’alcool.
Per quanto si ostini a tracannare whiskey, a trangugiare cocktail di ogni genere o degustare vini pregiati, non c’è nulla da fare: un’implacabile lucidità si frappone fra lui e quella percezione del mondo opportunamente filtrata cui agognerebbe sopra ogni altra cosa.
Tutto gli appare per quello che è: uno stantio teatrino di maschere insopportabilmente rivelatrici. Per Karoo la verità rende liberi, sì, ma liberi al punto che si può anche decidere di rifiutare quella stessa verità, preferendole altro.
Questa sua qualità, assieme a un indubbio talento per la parola scritta, lo ha reso uno degli script doctor più pagati di Hollywood.
Uno script doctor, per intenderci, sta all’industria del cinema come il dado di glutammato sta alla cucina orientale: pialla ogni possibile diversità e omogeneizza i sapori più freschi rendendoli acconci a palati grossolani.
Ovvero, e per uscir di metafora, quando una sceneggiatura presenta un discreto potenziale commerciale, ed è frenata nella sua corsa verso il successo al botteghino soltanto dall’inopinata inclinazione artistica mostrata dal suo autore, Karoo entra a gamba tesa sui sogni letterari dello sceneggiatore e trasforma quell’opera fragile e bella in un coacervo di luoghi comuni ed emozioni a buon mercato.
Ma mentre Karoo è pagato profumatamente per dipingere tramonti in technicolor sottolineati da tappeti sinfonici di archi strappalacrime, la sua vita si avvia a grandi passi verso un editing definitivo: non c’è riscrittura che potrà rimetterne a posto gli iati narrativi, né emendarla dalle conseguenze di un egoismo coltivato come un’orchidea preziosissima.
Il conto sta per arrivare a quel tavolo dove ogni due settimane Saul cena assieme alla ex moglie conducendo assieme a lei un minuetto che ha il potere strano e raro di far sganasciare dalle risate il lettore mentre lo riempie di amarezza, e Saul sa bene che si tratta di un conto che nessuna carta di credito sarà in grado di saldare.
Fra le cattiverie in punta di fioretto ostentate dalla high society newyorkese e le nefandezze luciferine di cui solo Hollywood è capace, corre il treno lanciato da Steve Tesich, lungo i binari di una comicità irrefrenabile; e se non ci è permesso dimenticare nemmeno per un istante che la corsa finirà con uno schianto, questo non diminuisce affatto la gratitudine che proviamo ad ogni pagina per il fatto di ridere come stupidi e sentirci nel contempo più intelligenti.
Steve Tesich ha scritto molte sceneggiature originali per Hollywood, e chissà quante sceneggiature altrui ha riscritto, se è vero che nell’empatia mostrata con il suo personaggio non può non aver travasato molto di sé e della sua vita. Tesich ha scritto anche qualche romanzo, e quello con cui Adelphi emenda la lacuna fin troppo lunga patita dai lettori italiani è forse il picco più alto raggiunto da quest’anima autenticamente slava alle prese con le contraddizioni della società americana.
Non rimpiangiamo gli altri bellissimi romanzi che avrebbe potuto scrivere se un infarto non l’avesse stroncato prematuramente nel 1996, però, perché “Karoo” è il romanzo di una vita, e contiene tutto ciò che a un’opera di narrativa è lecito domandare.
È un libro fantastico, zeppo di dialoghi magistralmente brillanti e permeato da un’intelligenza che non abdica mai al proprio sguardo sul mondo e sugli uomini, riuscendo in un’impresa rara e ammirevole.
Steve Tesich - Karoo
Tit.or. Karoo, trad. Milena Zemira Ciccimarra
459 pag., 20 euro - Adelphi
ISBN 9788845928734
Saul Karoo è lo "script doctor" più pagato di Hollywood, e se si tratta di espungere da un copione le scene più melense o grottesche non c'è nessuno come lui - che quel tipo di situazioni sembra conoscerle piuttosto bene, sul piano personale. Ma adesso deve risolvere alcuni problemi. Primo, cinquant'anni di vita malsana hanno accentuato, dice il medico, la sua naturale inclinazione a "contrarsi in verticale, ed espandersi in orizzontale". Secondo, la delirante separazione da sua moglie è una storia d'amore al contrario, molto divertente per noi, ma molto tormentosa per lui. Terzo, il suo signore e padrone, l'onnipotente produttore Jay Cromwell, gli ha chiesto di massacrare l'ultimo capolavoro di un vecchio regista di genio, Arthur Houseman, che Cromwell considera veleno al botteghino. Eppure, quando sul banco della moviola scopre che a risplendere in una delle scene tagliate è la madre di Billy, suo figlio adottivo, Karoo intuisce che da quegli scarti di pellicola può nascere qualcosa di molto, molto sorprendente. Così come con gli scarti delle pellicole che abbiamo più amato sembra costruito questo romanzo, fatto di una materia grassa, speziata e molto poco "kosher" che ci procura in parti uguali riso, lacrime e notti insonni, e che per comodità continuiamo a chiamare cinema.
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