Il culto dell'arte del passato non è mai stato tanto diffuso quanto oggi. Ma quale storia dell'arte è stata innalzata sull'altare? E chi raccoglie davvero i frutti di questa venerazione: le masse dei fedeli che sciamano nei templi o gli avidi sacerdoti che ne gestiscono i riti? A chi serve, e a cosa serve, Michelangelo?
Se tre milioni vi sembran pochi... Anzi, per la precisione: se tre milioni e duecentocinquantamila euro vi sembrano una cifra ragionevole da spendere per un piccolo crocifisso di incerta paternità...
Forse questa sarebbe una cifra accettabile per un ministero che potesse contare su bilanci floridi, quando lo Stato decidesse di acquistare – poniamo – un capolavoro sconosciuto, fino ad allora rimasto in mani private, la cui attribuzione certissima rimandasse al genio universalmente riconosciuto di Michelangelo.
Se invece una tale somma fosse destinata all’acquisto di un crocifisso ligneo simile ad altri dieci, di produzione di una scuola fiorentina che nulla ha a che vedere con Michelangelo, bè, allora ci sarebbe da indagare, e cercare di smascherare la macchina che si è messa in moto a tanti livelli per forzare quell’acquisizione da parte del Ministero dei beni culturali.
Una macchina che ha coinvolto storici dell’arte, esperti in varie materie, critici di chiara fama, e uomini politici.
Quello del “Michelangelo” ligneo è un caso che ben si presta a raccontare lo sfascio in cui versa la consapevolezza del patrimonio artistico in Italia, prima di tutto a livello culturale.
È una deriva ormai radicata, un costume secondo il quale le opere d’arte sono specchietti per le allodole, oggetti carismatici che raccontano di un passato sconosciuto che diventa folclore e non ha nessuna relazione con il contesto storico e umano dal quale ha avuto origine, né tantomeno con ciò che quel contesto è diventato.
È disneyland, come sottolinea nella battagliera e puntuale prefazione a questo libro lo stesso autore: un parco di divertimenti nel quale l’incontro fra il cittadino e l’opera d’arte avviene “al buio”, senza che si abbia nessuna preparazione in merito alla vicenda storica dell’opera, e puntando invece a far cassa subito.
La storia sulla quale il Professor Montanari (docente di Storia dell’arte moderna presso l’Università di Napoli Federico II) concentra le sue attenzioni ha origine nel 2004, quando il Museo Horne di Firenze inaugura una mostra intitolata “Proposta per un Michelangelo giovane. Un crocifisso in legno di tiglio”, nel corso della quale viene avanzata l’ipotesi – suffragata dal parere di autorevoli esperti nel catalogo relativo alla mostra – che quel crocifisso ligneo, dai trascorsi inconoscibili e giunto infine fra le mani di un antiquario torinese di gran fama, fosse di mano dell’autore della “Pietà”, a dispetto di tutte le evidenze che invece portavano a ritenere plausibile il contrario.
Una campagna di marketing ben orchestrata, e rilanciata dai media tradizionali con l’aiuto di giornalisti incompetenti o compiacenti, contribuì a far conoscere il crocifisso come un pezzo straordinario, di fattura incomparabile (mentre, come fa notare lo stesso Montanari, la scultura “accosta un bel corpo a un volto francamente malriuscito”), garantendogli una tournée promozionale lughissima ed estenuante… anche per l’opera, che infatti oggi si trova “seppellita in una cassaforte” in attesa di venir collocata nella sua sede definitiva.
Fino a che, nel dicembre del 2009, la Procura di Roma procede ad accertamenti sull’intera vicenda, che presenta moltissimi punti oscuri, a cominciare dalla prima, vertiginosa quotazione di diciotto milioni proposta dall’antiquario alla commissione dei Beni culturali; cifra repentinamente scesa al valore cui la scultura sarebbe poi stata venduta perché esistevano dei vincoli.
Dopodiché, è tutto un precipitoso fuggi fuggi: i critici che erano saliti sul carro della banda, annunciando trionfalmente che il patrimonio artistico pubblica poteva contare su di un nuovo, eccezionale pezzo michelangiolesco, negano di aver mai avvalorato l’attribuzione. Si fanno più incerti gli entusiasmi. L’opera lentamente torna nell’ombra.
Quello del Cristo Gallino (dal nome dell’antiquario torinese che deteneva il crocifisso, e che è recentemente scomparso) è un caso esemplare, non certo l’unico, ma il libro di Montanari ha il pregio di riuscire a renderlo universale, mostrando come l’Italia riposi su allori che non dureranno per sempre, e che dovrebbero venir valorizzati attraverso un’azione pedagogica e una rivoluzione culturale profonda.
Tomaso Montanari - A cosa serve Michelangelo?
129 pagine, 10 euro - Einaudi (Vele)
ISBN 9788806207052
04 aprile 2011 | Di Matteo Baldi |
C'è un'idea - di casa persino al ministero dei Beni culturali italiano in questi anni - secondo cui l'Italia potrebbe diventare una grande "Disneyland culturale": ma è davvero a questo che serve il tessuto artistico e paesaggistico che abbiamo ereditato e che stiamo rovinando? Per rispondere, si può partire dalla storia di un crocifisso attribuito a Michelangelo e acquistato dal governo Berlusconi per più di tre milioni di euro: raccontarla significa parlare del potere del mercato, dell'inadeguatezza degli storici dell'arte, della cinica manipolazione dei politici e delle gerarchie ecclesiastiche, del perverso sistema delle mostre, del miope opportunismo dell'università e della complice superficialità dei mezzi di comunicazione. Il degrado del ruolo della storia dell'arte nel discorso pubblico accompagna la metamorfosi del ruolo del patrimonio storico e artistico: da gratuito strumento di crescita culturale garantito dalla Costituzione, a parco dei divertimenti a pagamento.
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