I topi nella letteratura sono prevalentemente simbolo di angoscia e indicano disgusto e degrado. Non è certo possibile riproporre tutte le opere in cui questi animali sono stati raccontati da scrittori antichi e moderni: pensiamo solo ai ratti che, uccidendo l’ultimo discendente della famiglia Buendia e trascinandone via il corpicino, chiudono anche simbolicamente Cent’anni di solitudine, il romanzo che valse a Gabriel García Márquez il Premio Nobel.
Ci soffermiamo però su tre testi che sono dei veri e propri classici, ognuno nel suo particolare genere: Uomini e topi di John Steinbeck; La peste di Albert Camus e la graphic novel Maus di Art Spiegelman.
E parlando di topi...
L'anno del topo
I topo-divi
"Firmino" di Sam Savage
Uomini e topi di John Steinbeck
Il titolo dell'opera è tratto da una poesia dello scrittore scozzese settecentesco Robert Burns. Il romanzo di Steinbeck è stato pubblicato a New York nel 1937 e in Italia da Bompiani nel 1938, tradotto da Cesare Pavese.
Il romanzo si svolge in America nel periodo successivo alla crisi del 1929 ed è ambientato in una fattoria della California centrale dove sono giunti due stagionali in cerca di lavoro: George Milton e Lennie Small.
Lennie è un ragazzo, buono ma con il cervello di un bambino. Possiede una terribile forza, che non riesce a controllare: con la semplice pressione delle dita infatti, uccide spesso inavvertitamente i piccoli animali che ama accarezzare, come topi o cagnolini.
George, che gli vuole bene, cerca sempre di controllarlo e ogni volta che può lo tira fuori dai guai. Cerca anche di rallegrarlo e di dare sollievo alla miseria in cui vivono, dandogli speranza per il futuro, parlandogli della fattoria che un giorno avranno, piena animali e di cose belle e morbide che potrà accarezzare.
Lennie, ascolta l'amico, ha cieca fiducia e grande ammirazione per lui, gli obbedisce in tutto e si sforza di ricordare ogni sua parola.
Un giorno Lennie si invaghisce della bella moglie del prepotente Curley e involontariamente, per accarezzarle i capelli, la uccide. George allora, per pietà e per sottrarlo al linciaggio, lo colpisce, uccidendolo, con un colpo di pistola, mettendo così fine alle sue sofferenze.
Dal romanzo venne tratto nel 1939 il film dal titolo omonimo con la regia di Lewis Milestone e gli attori Burgess Meredith, Betty Field e Lon Chaney Jr..
Nel 1992, sempre con lo stesso titolo, è stato girato il film del regista Gary Sinise, con l'interpretazione di John Malkovich nella parte di Lennie Small, Gary Sinise nella parte di George Milton e Sherilyn Fenn nella parte della moglie di Curley.
Nel 2006 viene citato più volte nel corso del quarto episodio della terza stagione di Lost.
La peste di Albert Camus
La Peste, la malattia che nei secoli ha mietuto milioni di vittime e, in un certo senso, ha modificato il corso della Storia dell'umanità. Un malattia, ma anche un simbolo che indica come il male possa improvvisamente esplodere annientando, come vadano colti i primi segni di quella che non è solo una delle maledizioni bibliche, ma può essere un male dell'anima.
La Peste, un bacillo che, anche quando è apparentemente annientato, può tornare a rigenerarsi, tragicamente forte e prolifico.
Metafora del Male che si nasconde nel cuore degli uomini e che mai si può cancellare definitivamente.
Siamo negli anni Quaranta, l'Algeria è sotto la dominazione francese. A Orano le giornate scorrono calde e afose in una estate uguale a tutte le altre, con i giorni scanditi dal via vai delle navi mercantili nel porto e dal vuoto di un'esistenza nella quale "ci si annoia e ci si applica a contrarre delle abitudini". Un segno però fa presagire la tragedia incombente: un topo morto lungo le scale, poi cinque sul marciapiede. In pochi giorni sono migliaia a popolare con le loro carcasse ogni angolo della città: è la Peste che dilaga e che improvvisamente, miete a decine le sue vittime. Di fronte agli uomini e alle donne contagiati, sempre più numerosi, nessuno vuole ammettere il dramma; le autorità e i medici si rifiutano di pronunciare l'orrendo nome nel vano tentativo di frenare il contagio: Manzoni descrive con ironia il rifiuto seicentesco di ammettere l'epidemia, Camus ce lo ripropone in pieno Novecento. Ma viene il momento in cui è impossibile negare l'evidenza, ma è tardi quando si prendono le prime misure di sicurezza.
Alcuni uomini però vogliono affrontare il male, decisi a sconfiggerlo. Uno di questi coraggiosi è il dottor Rieux, un medico francese che vive a Orano e che, con un gruppo di persone generose, in una città in cui tutto manca dal cibo agli affetti, si batterà senza tregua per sconfiggere la peste. È affidato a lui il ruolo di narratore nel romanzo. Rieux racconta la cronaca dei fatti a partire dall'inizio del morbo fino al giorno della sua sconfitta. La fede, la volontà di chi non riesce ad "essere felice da solo" e il senso del dovere sono i veri protagonisti del romanzo. Alla fine il racconto di Rieux sarà il resoconto di una battaglia vinta, ma non la "cronaca di una vittoria definitiva":
"egli sapeva, infatti, quello che ignorava la folla e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore nè scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere e che forse sarebbe venuto il giorno in cui la peste avrebbe svegliato i suoi topi per madarli a morire in una città felice".
Camus conosceva un altro germe, un altro mostro che aveva, e nessuno all'inizio ne aveva visto la pericolosità, invaso l'Europa e ucciso milioni di uomini: il nazismo.
Anche questo mostro era stato sconfitto, ma lo scrittore sa che il virus può sempre riprendere forza e annientare le coscienze degli uomini. Per questo bisogna riconoscerne subito i primi "sintomi" e stroncare la malattia sul nascere.
Da questo romanzo fu tratto nel 1992 un film omonimo dal regista argentino Luis Penzo.
Maus di Art Spiegelman
Pubblicato a puntate negli Stati Uniti tra il 1980 ed il 1991 e in seguito raccolto in volume, Maus ha ottenuto il plauso di pubblico e critica, raggiungendo una popolarità planetaria. Tradotto in una ventina di lingue, nel 1992 è stata la prima graphic novel ad essere insignita di uno Special Award del premio Pulitzer, il massimo rinoscimento giornalistico mondiale.
L'opera è divisa in due parti:
Mio padre sanguina storia – composta da 6 capitoli pubblicati per la prima volta nel 1973 (in Italia nel marzo 1989 da Milano Libri), mostra il rapido inasprimento delle condizioni di vita degli ebrei polacchi negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della guerra.
E qui sono cominciati i miei guai – composta da 5 capitoli pubblicati per la prima volta nel 1991 (in Italia nel settembre 1992 sempre da Milano Libri), dà invece un chiaro spaccato della vita dei deportati all'interno del campo di concentramento negli anni della guerra.
I personaggi dell'opera sono rappresentati non in forma umana, bensì in quella animale, che caratterizza la loro posizione sociale, secondo una serie di metafore; i protagonisti, per esempio, gli ebrei perseguitati sono rappresentati come topi (Maus in tedesco significa topo), contrapposti ai nazisti dipinti come gatti, i francesi sono rane, i polacchi maiali, gli americani cani e così via.
Ecco le parole di Umberto Eco su questa storia: "Maus è una storia splendida. Ti prende e non ti lascia più. Quando due di questi topolini parlano d'amore, ci si commuove, quando soffrono si piange. A poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell'Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi dal ritmo lento e incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico".
Moni Ovadia sottolinea il senso delle scelte di Art Spiegelman: "... il topo è visto come essere minaccioso. Il topo è quello che scatena nell’uomo la voglia di annientamento: il topo spaventa, terrorizza, è portatore di strane malattie e di affezioni... Così i nazisti vedevano gli ebrei. Li vedevano come un virus, una piaga, come qualcosa da cancellare: bisognava disinfestare l’Europa dagli ebrei. Quando ammazzavano tutti gli ebrei dicevano che il territorio era Judenrein "pulito", "puro dagli ebrei".
Un'intervista ad Art Spiegelman su Café Letterario
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Sigmund Freud
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Casi clinici. Vol. 5: L'Uomo dei topi di Sigmund Freud
Il significato simbolico che i topi hanno negli esempi letterari sopracitati hanno un vero e proprio fondamento psicoanalitico. Prendiamo in considerazione il quinto volume dei Casi clinici di Freud intitolato L'uomo dei topi e lo capiremo.
L'Uomo dei Topi era un paziente di Freud, un avvocato di circa trent’anni che aveva sofferto fin dalla prima infanzia di impulsi ossessivi, che si erano aggravati negli ultimi anni, compromettendo sia la sua vita privata che quella lavorativa.
L’analisi iniziò il 1 ottobre del 1907 e durò undici mesi. Freud propose questo caso clinico al congresso di Salisburgo, il 27 aprile del 1908, circa sei mesi dopo la presa in carico del paziente, con il titolo: "Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva".
Il paziente soffriva di ossessioni (relative a due persone a lui care, suo padre e una donna di cui era ammiratore), provava forti impulsi autodistruttivi e si costruiva divieti che potevano riferirsi anche a situazioni insignificanti.
Il paziente durante la terapia aveva accettato di ripercorrere tutti gli eventi più significativi della sua infanzia. Il trauma all'origine dei problemi di questo paziente era avvenuto durante il servizio militare prestato in Galizia come sottotenente.
L'Uomo dei Topi aveva sviluppato il timore di un supplizio orientale, descrittogli dal suo Capitano (un militare particolarmente amante delle crudeltà) in cui alcuni topi vengono indotti a farsi strada nell'ano di un criminale. La sua ossessione era che questa punizione avrebbe potuto avere come vittima sia la donna che avrebbe sposato, sia suo padre che era morto da anni.
Da bambino ricordava di essersi "comportato male come un topo", cioè aveva morso la sua governante. Picchiato per questo dal padre, in lui era nato un odio profondo verso il genitore. Questo fatto aveva generato secondo Freud il desiderio inconscio che il padre potesse subire il particolare supplizio che vedeva nei topi l'elemento punitivo. Poiché il desiderio di vendetta era inaccettabile alla coscienza, lo aveva represso, trasformandolo in un timore ossessivo cosciente.
Freud interpreta dunque l'ossessione come un orrore conscio, mascheramento di un godimento inconscio.
Questo caso permise a Freud di affinare la sua comprensione della nevrosi ossessiva e in particolare del ruolo che vi giocano l'odio ed il godimento, l'ambivalenza dei sentimenti, la colpa legata a sentimenti di morte provati nei confronti del padre.
Osserviamo in questo articolo di Cristina Allegretti come la psicoanalisi in genertale interpreta la figura del topo:
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Cristina Allegretti
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Animale dell'anima, figura ctonia, simbolo dei poteri dell'oscurità, del movimento incessante, dell'agitazione insensata.
Nella religione cristiana è simbolo del diavolo, è il divoratore delle provviste. Santa Gertrude aveva il compito di proteggere da tale sventura,
il topo è raffigurato mentre morde le radici dell'albero della vita.
Usato dall'uomo anche come cavia per i suoi esperimenti, nell'inconscio è l'uomo ad essere messo alla prova, nei suoi bisogni, dalla presenza
inquietante del topo.
Simbolo della sessualità, dell'oralità, del predominio del sociale rispetto al predominio individuale, il topo è un simbolo provocatorio rispetto alla
coscienza piramidale, ben strutturata egoicamente dell'essere umano.
Il topo rappresenta spesso l'altro lato del Sè, è la manifestazione della poca familiarità che l'uomo ha con il suo lato universale.
Animale impuro, vive anche nelle fogne, si ciba di spazzatura, resta ai limiti del sociale e, restituito con queste caratteristiche alla dimensione
interiore e psicologica dell'uomo, ne incarna assai intuitivamente, il simbolo dell'esilio dalla dialettica umana.
Il topo e' un roditore, vive nell'oscurità. Animale schivo, nel passato gli venivano attribuite facoltà demoniache e profetiche. Si organizza in gruppi, così può vedere come un simbolo che rode la coscienza del singolo, messaggero della necessità di aprirsi, era visto nel passato anche come portatore di sventura a causa del suo rosicchiare oggetti culturali: come libri e così via.
Il simbolo del topo può essere associato alla dea azteca Tlazolteote, la dea della sporcizia, associata alle arti magiche e alla purificazione dei peccati, agiva da tramite tra il penitente e il dio Tezcotlipoca "Lo specchio che fuma".
Il mito, a mio avviso, ripropone la natura ambigua del topo, rappresenta sia il limite che si rifiuta, sia la forza cosmica non ancora socialmente elaborata, non fruibile.
S. Freud, in "Casi clinici 5 - L'uomo dei topi", si esprime così su questo animale: "L'idea del topo è inseparabilmente collegata con il fatto che esso morde e rode con i suoi denti aguzzi; ma se i topi mordono, sono sozzi e voraci, non possono restare impuniti; gli uomini li perseguitano e massacrano senza pietà, come il paziente aveva talvolta visto fare, inorridendone. Spesso aveva provato un senso di commiserazione per quelle povere bestie. Ora, egli stesso era stato una volta un piccolo monellaccio disgustoso e sporco, che nella rabbia sapeva mordere chi gli stava vicino, ricevendone poi tremende punizioni. Ben poteva ravvisare nel topo il suo `sosia'".
Senza inoltrarci sulla forzatura che Freud opera, a livello di causalità, tra vissuti remoti di aggressività verso il padre e fantasia ossessiva della persona in questione, il topo in effetti può essere visto come l'immondo che l'uomo porta in sè e che non può essere accettato dal Super-Io.
Il topo ha in qualche modo a che fare anche con l'atteggiamento predatorio dell'uomo, anzi è esso stesso caricatura del simbolo della "preda" in quanto, quando gli capita di finire nelle grinfie "scientifiche" e "scientiste" dell'uomo, esso può conoscere assai bene la "crudeltà" di questo uomo _ demiurgo per la cui causa dovrebbe immolarsi. Si pensi alle cavie da laboratorio, alla vivisezione.
C'è un modo di dire per indicare minimo risultato con apparente massimo sforzo: la montagna ha partorito il topolino! Un sogno si fa cruda e caricaturale immagine di tale espressione popolare:
Dal centro di una montagna fuoriescono tantissimi topi.
La sognatrice viene aiutata da un giovane ad attraversare la montagna: egli pone tavole di legno al suo passaggio, sicchè i piedi di lei restano protetti dal contatto con l'orrendo popolo. La sognatrice si ritrova, all'interno di un mausoleo, con la propria psicoanalista. Il luogo è solido, marmoreo, bianco e silenzioso. In questo sogno il topo rappresenta il lato caotico inconscio che esplode dalla montagna e che rende la stessa un posto insicuro dove stare, un brulicare di piccoli pensieri, il luogo eccellente dei personalismi in cui i tanti ego arrogantemente credono di costituire insieme la solidità e la certezza che solo la vera montagna, dunque il vero Sé, sa garantire. L'uomo soccorritore rappresenta il terzo occhio, la capacità riflessiva umana che conduce attraverso la morte dell'ego (che fino alla fine non rinuncia a celebrarsi se per riposare in pace vuole la "grandeur" di un "mausoleo") alla presenza in un luogo solido, silenzioso, e "purificato" dai "rodimenti" egoriferiti.
Significativamente, il sognatore, la notte prima del suo matrimonio, viene invitato a ridurre le proiezioni guardando al proprio inconscio. Tale è il senso del suo sogno:
Trova, tra le lenzuola, un topo.
L'immagine può segnalare, dunque, dinamiche inconsce ombrose che ci portiamo ancora dentro, e dai quali eventi importanti della nostra vita, quali la scelta di sposarsi, non ci possono difendere.
Il topo rimanda anche all' inconscio tout-court,che lega spesso il figlio alla madre, non solo alla madre esterna ma anche alla madre intesa quale parte dell'inconscio da cui la coscienza nasce.
Un sogno svela alla sognatrice una sua dinamica inconscia:
Nella cantina della madre vive un topo che divora tutto. La cantina è assolutamente disordinata in netto contrasto con la vera natura della madre, persona, caso mai, proprio eccessiva nella pulizia e nel rigore. Ciò che nella realtà è ordinato, nel sogno appare disordinato e il disordine viene alla luce nella cantina, simbolo del rimosso, dell'inconscietà, e nel disordine il topo: simbolo del caos, dell'animalità. Esso divora tutto, ogni oggetto affettivamente carico che in cantina, ovvero nell'inconscio stesso, temiamo e nascondiamo: i ricordi dolorosi, i limiti… ma anche le risorse, le nostre origini.
Il sogno può essere letto come un possibile richiamo alla sognatrice, ma anche a chi ha orecchie per sentire, di non lasciare abbandonato a se stesso l'inconscio dato che il rischio è quello di venire "divorati" proprio dall'inconscietà.
B., persona dalla coscienza evoluta, sì, ma anche donna con il tipico orrore del suo sesso verso l'animale in questione (musofobìa), mi ha confessato che, accortasi di "ospitare" un topolino a casa sua, ha lavorato di ingegno costruendosi un'esca per liberarsi di tale ospite.
La gioia, nel preparare l'esca¸ che le ha permesso di tuffarsi per un attimo nel rapporto cacciatore-preda, è stata pari al successo che il piano ha avuto.
Se ci abituiamo a leggere la vita concreta come un sogno, capiamo anche la gioia di B. per aver catturato il topo, quindi per aver simbolicamente neutralizzato l'inconscietà, per aver catturato il "roditore" di sogni.
Non sarà un caso se nel periodo in cui cerco di scrivere la scheda sul topo, un topo reale è stato visto nel giardino della casa dove abito: che sia tempo anche per me, sulle orme di B., di ingegnarmi e creare la nuova trappola contro i nemici dei sogni?
Me lo auguro!