Le interviste di Wuz.it

Mai avere paura: l'intervista a Danilo Pagliaro

La storia del legionario Danilo Pagliaro è la storia di un uomo che, dopo aver tentato di mettersi in gioco nella sua vita (prima cercando di entrare in Polizia, poi professando il mestiere del venditore), decide di dedicarsi alla carriera militare arruolandosi nella Legione straniera.
Il libro assume un valore di testimonianza delle vite dei legionari, mettendo l'accento sui motivi che possono spingere oggi un uomo a scegliere ""il mestiere delle armi"" e raccontando cosa significhi vivere nella Legione, assieme ai propri commilitoni, invece di far leva sulla retorica della guerra o indulgere in descrizioni di battaglie.
Il libro, edito da Chiarelettere, s'intitola 
Mai avere paura. Vita di un legionario non pentito (scritto a quattro mani con Andrea Sceresini).

Ecco l'intervista di Wuz a Danilo Pagliaro.

L'intervista di Wuz
Lei sostiene che dietro ogni legionario – per non dire ogni soldato – c’è una diversa ragione per impugnare le armi ed entrare in un esercito. Nel suo caso, qual è stata la molla che l’ha spinta a indossare il kepì?

Danilo Pagliaro
Sono andato in Francia per cercare lavoro e perché avevo deciso di lasciare l'Italia. Mia moglie era francese, per cui conoscevo bene la situazione di quel Paese, per niente paragonabile alla nostra. In Francia, per esempio, c'era un'assistenza sociale incredibile. Anche trovare lavoro sembrava più facile. Arrivato in Francia ho visto che la Legione esisteva veramente e ho ""scoperto"" la possibilità di fare quello che avevo sempre desiderato: un mestiere che potesse farmi sentire soddisfatto, realizzato e che mi permettesse di lavorare dalla parte ""giusta"", servendo in prima persona valori e ideali che ho sempre avuto. Inoltre c'era la consapevolezza di trovare la sicurezza che un posto nelle Forze Armate avrebbe potuto darmi, e quando si intravede un'opportunità così, a trentasei anni...
 

Wuz
Ci racconta un episodio – non di guerra guerreggiata, sappiamo che un soldato non racconta mai quel che accade sul campo di battaglia – un episodio della sua vita di soldato, insomma, che ai suoi occhi esemplifichi bene l’essenza di una vita come quella che ha scelto?

Danilo Pagliaro
Durante il periodo delle sommosse di Bangui, nel 1996, mi trovavo in ascolto radio nel mezzo blindato delle trasmissioni, parcheggiato a fianco alla casa dove stava il Colonnello, comandante delle Forze francesi presenti in quel momento in Repubblica Centrafricana. A causa di un contatto, la situazione si era fatta estremamente tesa, per cui verso le tredici del pomeriggio ero ancora lì. A un certo punto ho sentito la porta blindata posteriore aprirsi di colpo. Siccome stavo ricevendo un messaggio, non ho nemmeno alzato gli occhi per vedere chi fosse, ma ricordo bene l'odore di pomodoro caldo che invase il mezzo blindato. Sul retro del mezzo era arrivato il Colonnello comandante con un piatto fumante di pasta al pomodoro in mano. Mi ha detto: «Pedro, so che sei qui dalle due di mattina e sicuramente hai fame. So anche che sei italiano, per cui ti ho preparato un piatto di pasta col pomodoro fresco. Se hai ancora fame passami un messaggio...»

Un altro episodio è avvenuto a Castelnaudary, durante lo stage trasmissioni, dove incrociavo spesso un ragazzotto con cui scambiavo due parole, quando si poteva. Sapevo che era corso, che suo papà era stato legionario al REP, e mi diceva che quello che più avrebbe voluto era di finire l'istruzione poter essere assegnato al REP, e andare, in divisa da legionario e con le ali da paracadutista, a mettersi sull'attenti davanti alla tomba di suo papà.
Lui sapeva che mia moglie mi aveva lasciato, che avevo due figli e che andavo a trovarli quando potevo. Un sabato mi vide uscire dalla sala mensa e mi chiese se stessi andando a vedere i miei figli. Risposi che, con lo stipendio che avevamo, era assolutamente impossibile. Al che lui andò a ritirare allo sportello automatico 1000 franchi e me li diede, dicendomi che io avevo un motivo per andare ma non avevo i soldi, mentre lui aveva i soldi ma non aveva nessun motivo per muoversi, per cui insistette per darmeli. Quando gli chiesi come avrei fatto a restituirglieli, mi rispose: «Quando ne avrò bisogno saprò trovarti». Circa due anni dopo ho ricevuto una lettera da parte sua che mi chiedeva se mi ricordavo di lui, che era al REP, e che aveva bisogno di ricevere i 1000 franchi che mi aveva prestato. Perciò gli ho fatto immediatamente un versamento di 1500 franchi e gli ho scritto che lo ringraziavo: non per i soldi che mi aveva prestato, ma per il fatto di essersi fatto vivo e di permettermi così di onorare il mio debito nei suoi confronti.
 

Wuz
Quanto ha inciso il successo internazionale di American Sniper sulla sua decisione di pubblicare un memoir? Ovvero, e per dirla in altre parole: stiamo assistendo a uno “sdoganamento” narrativo di figure – il cecchino, il mercenario – che fino a ieri avevano una connotazione fortemente negativa?

Danilo Pagliaro
Per quanto mi riguarda sicuramente allo 0%. L'idea di scrivere qualche cosa per rendere onore alla Legione Straniera e ai suoi uomini è ben antecedente il libro di cui parlate, e che oltretutto non conosco, non ho letto. [...]
Sicuramente, stiamo assistendo a un'evoluzione della mentalità rispetto ad alcune figure, e non sono convinto che sia un cambiamento in positivo. Tutto è banalizzato, tutto è ridotto a un videogioco, al soft airRiguardo la figura del cecchino, sono d'accordo a metà con quanto dite. Voglio dire che la figura in sé non è negativa. Un tiratore scelto è una pedina essenziale. Nelle Forze Armate può avere un impatto incredibilmente efficace sul campo di battaglia. Nelle Forze dell'Ordine ha un impiego di primo ordine. Viceversa, quello che trovo negativo è tutta la schiera di giovani esaltati che vogliono fare i tiratori scelti e che dicono scemenze incredibili senza rendersi conto che il compito, uno dei compiti di un tiratore scelto, è quello di uccidere.
È veramente un discorso complesso. Ciò a cui assistiamo è la voglia sempre più forte della gioventù di arruolarsi, mitizzare e idealizzare il mestiere delle armi.
Il problema di fondo è che in parte la gente non vuole “il mestiere delle armi”, ma vuole un posto di lavoro statale, sicuro. Quando io ho fatto il militare guadagnavo 500 lire al giorno e nessuno voleva fare il militare; chi poteva, si faceva raccomandare per evitarlo. Oggi che il militare ha uno stipendio decente - guarda caso - tutti parlano solo di patria, onore, valori, e si cercano le raccomandazioni per poter entrare nelle Forze Armate o dell’Ordine. 

Wuz
Il fronte mediorientale si allarga ogni giorno, e lei in un’intervista che ha rilasciato al «Fatto», legge in molti segni del presente la prossima (o già agli atti) sconfitta dell’Occidente contro l’ISIS. Un Golia ipertecnologico e armato fino ai denti, cioè, che segna il passo di fronte a un’armata Brancaleone (sia pur aggressivissima e mossa da un fanatismo ideologico straordinariamente efficace). Qual è, a suo avviso, la ragione di un tale, straordinario exploit bellico e mediatico?

Danilo Pagliaro
Il problema evidente è che il Golia ipertecnologico ha i mezzi e la tecnologia per fare quello che vuole, ma gli manca la volontà di fare qualche cosa di concreto. E comunque state travisando completamente il tenore delle mie frasi. Non so se l’Occidente sarà sconfitto dall’Isis. Quello che ho detto è che questa guerra l’abbiamo già persa, ma mi riferivo alla situazione in cui l’Italia si trova rispetto al “problema islamico”. Questo lo ribadisco con forza: sia che c'è un problema islamico, sia che la battaglia è già persa.
Riguardo la ragione di un tale, straordinario exploit bellico e mediatico, penso che le ragioni siano molto semplici da analizzare. Da un punto di vista mediatico, l’exploit é molto forte perché le cose che fanno “creano notizia”, come tagliare la gola alla gente, decapitare in diretta, apparizioni del boia con il coltello in mano ecc... sono tutte cose che, per forza, scuotono la società occidentale non più abituata a una barbarie del genere. Da un punto di vista bellico, questa gente non può essere fermata con i mezzi impiegati oggi. I bombardamenti non servono a niente. Certo, rallentano, “infastidiscono”, possono causare danni o qualche perdita, ma di sicuro non risolvono il problema, anzi, rendono sempre più insicuri i Paesi che partecipano a questo tipo di azioni. Le battaglie si vincono a terra. E, fintanto che non verranno mandate truppe al suolo per combattere “frontalmente” questa organizzazione, le cose non cambieranno. Ma il problema è molto più profondo, secondo me. Di fronte abbiamo delle persone che sono pronte a uccidere e a morire. Noi, intanto, facciamo ancora i dibattiti se sia giusto o meno fare una cosa piuttosto che un’altra, per colpa di chi siamo in questa situazione, se dobbiamo reagire, come reagire, in che modo, quando...
 

Wuz
L’Italia è una cerniera fra culture eterogenee, diversissime fra loro. Ma oggi il Mediterraneo è un mare chiuso: migliaia di persone hanno perso la vita – e continuano a farlo, ogni giorno – mettendosi “in pelago” per cercare una vita migliore. Come cittadino, prima ancora che come soldato, ritiene che la risposta che stiamo offrendo a quella domanda sia adeguata? Oppure stiamo sbagliando tutto? E quale pensa debba essere il compito dell’Esercito, in questa contingenza storica?

Danilo Pagliaro
Come avete detto bene, l’Italia é una cerniera fra culture eterogenee, da sempre, da secoli, ma ha sempre mantenuto la sua identità.
Oggi questa identità la stiamo perdendo, è già persa sull’altare della stupidità, dell’ignoranza, della malafede, degli interessi personali...
Ma andiamo per gradi: per discutere di questa cosa, bisogna già riconoscere che c’é un problema interno al Paese e che il problema è dato dall'integrazione o non integrazione dei nostri amici musulmani.
In Italia, oggi, se si parla di islam per criticarne certi aspetti, si passa subito per fascisti, razzisti, xenofobi, partigiani dell’anti diritti dell’uomo, anti minoranze etniche, anti minoranze religiose. La prima cosa da fare sarebbe quella di diventare capaci di parlare del problema islamico in maniera critica, indipendentemente dal proprio credo politico o dalla propria corrente di pensiero, senza avere paura di farsi etichettare come il cattivo o il razzista di turno. Una volta superata questa tappa, bisognerebbe riappropiarsi della nostra identità nazionale, dei caratteri che hanno permesso al nostro popolo di attraversare i secoli mantenendo ed esaltando le proprie tradizioni comuni, la propria cultura, le proprie origini.
Nessuno può contestare che l’Italia, intesa come quel pezzo di terra che va dalle Alpi alla Sicilia, è stato abitato sempre da gente di razza bianca, di cultura greco-latina e di tradizione cristiana. Sto dicendo una verità assoluta, incontestabile. Non c’è niente di male in queste affermazioni, a condizione di non strumentalizzarle. [...] Riguardo la cultura è la stessa cosa. Noi abbiamo una cultura greco-latina: c’è forse qualche cosa di male in questo, o di non vero? E riguardo le nostre tradizioni e la nostra religione, sto forse istigando l’odio fra i popoli sostenendo che la nostra tradizione è cristiana? Certamente no! 
Ecco il grande problema: oggi, in nome del politicamente corretto, in nome di questo incredibile fenomeno di buonismo, di perbenismo, di ""vogliamoci bene ad ogni costo"", in nome della paura di non voler passare per razzisti, oggi non si vuole più ammettere che noi, come italiani, siamo questo: dei bianchi, di cultura greco-latina e di tradizione cristiana. Il che non vuol dire che i neri o i gialli o i buddisti o i musulmani non possono venire a casa nostra! Ma, appunto, bisogna tenere presente che chi non è come noi, chi non è italiano, è ospite in casa nostra. [...]
Quindi secondo me stiamo sbagliando tutto dall’inizio alla fine. Certamente bisogna accettare e integrare quelle persone che vogliono venire nel nostro Paese, ma non a qualsiasi prezzo. [...] Ecco perché, come cittadino, penso che stiamo sbagliando tutto. La risposta che stiamo dando è totalmente inappropriata e ci sta portando alla perdita totale della nostra identità nazionale e anche alla perdita pura e semplice del nostro territorio.

Wuz
Chiudiamo su una provocazione: oggi – all’indomani della pubblicazione di un libro che sta facendo parlare di sé e miete successi ovunque, e a due anni dalla pensione - può cominciare a immaginarsi anche lei come “un legionario da tastiera”?

Danilo Pagliaro
Assolutamente no. Io definisco un ""legionario da tastiera"" tutta quella schiera di quaquaraquà che si dicono legionari perché giocano a soft air, o perché conoscono qualcuno che è andato in Legione, o perché s'inventano delle vite parallele nelle quali sono legionari, o sono uomini forti, duri, massicci e incazzati, o ancora tutta quella schiera di gente infame e schifosa che sono i disertori, che parlano e raccontano delle loro storie che finiscono immancabilmente tutte con fughe dovute a gravi problemi familiari, cancri, incidenti mortali, figli in fin di vita, mamme moribonde e via di questo passo.
Fra pochi mesi entrerò in una posizione di servizio particolare che mi permetterà di fare altre cose, a tempo pieno, fino al momento della pensione vera e propria. E quindi, di sicuro, non mi metterò “alla tastiera” né in senso figurato, né in senso letterale. Continuerò a scrivere altre cose come nel mio progetto iniziale, di cui questo libro è solo l’inizio. Continuerò gli studi universitari che ho ricominciato alla facoltà di Avignone. Continuerò a insegnare la subacquea ricreativa così come ho fatto fino ad adesso. Ma legionario da tastiera sicuramente no: non mi piace parlare per non dire niente, e non mi piace particolarmente stare seduto con le pantofole ai piedi.
 

a cura di Matteo Baldi

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