In Kurdistan c’è questa cosa strana. Pure quello che pare il ragionier Filini, che non gli daresti mai una lira, che s’accolla con le lenticchie come mi’ nonna, c’ha una vita che Die Hard-Duri a Morire je spiccia casa e ti fa sempre sentire lo scemo del villaggio.
Zerocalcare negli ultimi anni si è imposto come una delle più autorevoli figure della controcultura italiana, un’etichetta che il fumettista di Rebibbia rifiuterebbe volentieri, data la programmatica riluttanza a prendersi sul serio. Eppure una volta finito Kobane Calling si ha la sensazione che Calcare non possa più sottrarsi a letture che elevino il valore culturale dei suo lavori, non più riducibili a semplice divertissement riservato a un pubblico giovane, disimpegnato e affamato di citazionismo pop. L’albo infatti segna un ritorno alla ribalta del fumetto di denuncia, un’importante presa di coscienza sui mezzi di questo formidabile medium, qui veicolo di informazione più potente di qualsiasi editoriale sul Medio Oriente. Probabilmente Kobane Calling sancirà il riconoscimento definitivo dell’autore, un lasciapassare per l’ingresso nel pantheon dei grandi del fumetto italiano, in compagnia di Gipi, Ortolani e del mai abbastanza compianto Andrea Pazienza.
Zerocalcare dimostra infatti che è possibile realizzare, attraverso il fumetto, un reportage giornalistico di valore, evitando che il mezzo dissacri la delicata materia trattata. Il rischio di volgarizzare il dramma curdo era elevato, dato che le vignette dell’autore si sono sempre segnalate per l’umorismo borderline e la presenza di personaggi sopra le righe, capaci di battute agghiaccianti. Per l’occasione il fumettista romano invece si contiene, relegando a semplice comparsa il fido armadillo e bandendo il ricorso a situazioni di cattivo gusto. Unica concessione all’umorismo, oltre all’onnipresenza del romanesco, è la rappresentazione dei guerriglieri dell’Isis in veste di cattivi di Ken il Guerriero, quegli inquietanti energumeni borchiati - dei culturisti deformi vestiti da punk - che condividono con Daesh l’attitudine alla decapitazione. Sorprende l’estremo realismo della narrazione, arricchita da premesse storiche e commenti in prima persona dell’autore, che si rivolge direttamente al lettore, sfondando spesso la quarta parete per illustrare in poche e chiarissime vignette delle complicate vicende di geopolitica.
Ci si immerge facilmente nel racconto proprio per la capacità di portare chiarezza in una situazione drammaticamente complicata, di cui i telegiornali danno contraddittorie notizie, proponendo di volta in volta diverse rappresentazioni della rivoluzione curda: prima prodotto di una rivolta armata e propugnata da terroristi in aperto conflitto con il governo turco e ora ultimo baluardo di civiltà contro l’avanzata dell’Isis. Giudizi sommari, figli dell’ondivaga politica delle diplomazie occidentali, che non tengono conto della storia di una guerra decennale, in cui definire posizioni manichee è da irresponsabili. Lungo il confine turco-siriano non esistono buoni o cattivi, ma solo vittime e carnefici, di ogni etnia e religione. I curdi del PKK raccontati da Zerocalcare non sono necessariamente buoni - anche se è difficile non simpatizzare per le avvenenti soldatesse armate di kalashnikov – ma rappresentano una forma di rivoluzione capace di portare un’idea di democrazia nel Medio-Oriente in cui le donne sono completamente emancipate. Kobane infatti sembra un matriarcato popolato da eroine votate alla protezione dei loro fratelli, falcidiati da un conflitto che li ha disumanizzati. Le donne paiono l’ultimo baluardo in difesa dell’umanità.
Questo libro tuttavia non è solo un reportage da una zona di guerra, ma anche un racconto di formazione, in cui Zerocalcare si interroga sul significato dei suoi tre viaggi e sulla natura dell’inedito lavoro, commissionato da «Internazionale», periodico che aveva già ospitato parte delle vignette qui raccolte. Il fumettista confessa un certo imbarazzo nel calarsi nelle vesti del giornalista, obiettivo e alieno alla retorica, in grado di prendere le distanze dai personaggi intervistati. Infatti egli non riesce a rimanere neutrale, poiché cede alla tentazione di idealizzare Kobane e il modello curdo, trasformando l’albo in un libro politico. Il lettore ciò nonostante non potrà imputargli altre colpe, in quanto dalle vignette emerge un’umanità perduta, di cui lo spettatore occidentale ha un’immagine travisata da anni di pessima informazione. Zerocalcare ci offre un lavoro importante, ricordandoci che lungo il confine turco-siriano non è in corso un semplice conflitto sull’esistenza del Kurdistan, ma una lotta sul significato della parola umanità.
Recensione di Matteo Rucco
Zerocalcare - Kobane calling
270 pag., 20, 00 € - Bao Publishing
ISBN 9788857227801
Tre viaggi nel corso di un anno. Turchia, Iraq, Siria, il Kurdistan come i telegiornali non lo raccontano, per documentare la vita della resistenza curda in una delle zone calde meno spiegate dai media mainstream.
Tre viaggi, Turchia, Iraq, Siria. Le macerie di Kobane e un popolo intero in guerra per difendere il proprio diritto a esistere, proteggendo labili confini la cui esistenza non è sancita da nessun atlante geografico. Zerocalcare ci racconta, con sguardo lucido e solo a tratti ironico, una delle più importanti battaglie per la libertà silenziosamente in corso al mondo. Un libro importante, difficile da inquadrare in poche parole, che raccoglie le due storie già apparse su "Internazionale" e quasi duecento pagine in più di diario di quei viaggi nel Rojava, la regione che i curdi stanno cercando di trasformare in un’utopia democratica senza uguali in Medio Oriente e forse al mondo. Un lungo racconto, a tratti intimo, a tratti corale, nel quale l'esistenza degli abitanti di Rojava (una regione il cui nome non si sente mai nei telegiornali) emerge come un baluardo di estrema speranza per tutta l'umanità.
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