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Mandela Day: la nostra occasione per celebrare la libertà

Illustrazione digitale di Tommaso Spadaro, 2022, studente del Triennio in Graphic Design e Art Direction, NABA, Nuova Accademia di Belle Arti

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La felicità degli esseri umani deve, in ogni società, essere fine a sé stessa

Nelson Mandela

Il vero nome di Nelson Mandela era Rolihlahla: gliel’aveva dato suo padre, che era un re, mentre l’altro nome, Nelson, arrivò più tardi da una bisbetica insegnante che non sapeva parlare la lingua xhosa. Rolihlahla significa, letteralmente, «che tira il ramo di un albero» e, per estensione, sta a indicare un piantagrane, un attaccabrighe. È facile, credo, immaginare un piccolo e vivace Mandela che scorrazza per il suo villaggio a disturbare la sedentarietà degli alberi tirandone i rami più bassi – scuotendo un po’ quella loro immobilità solenne per risvegliarli.

Il 18 luglio si celebra il Nelson Mandela International Day, più conosciuto come Mandela Day, ricorrenza istituita dall’Onu nel 2009. La data scelta non è casuale: è, infatti, quella del compleanno di Mandela stesso. Al contempo, nonostante questa corrispondenza, il Mandela Day non è una semplice commemorazione, perché non vuole solo ricordarci che un sudafricano nero ha posto fine, con la forza delle proprie parole, all’apartheid. Nasce, invece, sin da subito con un’idea molto precisa: ispirare, ogni anno, il cambiamento

Noi vi invitiamo a celebrare il Mandela Day facendo la differenza nelle vostre comunità. Tutti hanno la capacità e la responsabilità di cambiare il mondo in meglio. È l’occasione per tutti di agire

Un invito, ogni 18 luglio, a riflettere sul mondo che abitiamo, perché si possa, nel nostro piccolo, fare qualcosa per renderlo migliore. Del resto, la stretta collaborazione tra Onu e Mandela ha origini lontane. All’incirca, si può dire che abbiano cominciato a battersi per la stessa libertà nello stesso momento: Rolihlahla aprendo uno studio legale che assistesse chi non poteva permettersi una difesa; le Nazioni Unite mettendo la questione dell’apartheid all’ordine del giorno. Ancora, nelle settimane successive ai fatti di Sharpeville del marzo 1960, da un lato Mandela è arrestato per la prima volta, dall’altro l’Onu prende i primi provvedimenti contro le politiche razziste sudafricane.

Il 1962 è, per Mandela, l’inizio di quei famosi 27 anni di prigione che scuoteranno il mondo e che porranno fine, per il loro valore simbolico, alla segregazione dei neri in Sudafrica. La prima accusa – che lo voleva in carcere per cinque anni – riguardava i suoi rapporti con l’African National Congress, un movimento politico che promuoveva un governo democratico. Nel 1964, però, vennero alla luce dei progetti dell’ANC a sfondo terroristico in cui compariva anche il nome di Mandela: il processo di Rivonia lo condannò all’ergastolo nel carcere di Robben Island e le sue parole furono dichiarate fuorilegge.

Quando fu rilasciato, nel 1990, percorse l’unica strada che conosceva per cambiare il mondo: il dialogo. Trattò con l’allora presidente De Klerk e insieme arrivarono a un accordo: ci sarebbero state delle elezioni democratiche aperte a tutti. Nel 1993 vinsero il premio Nobel per la Pace, per questa straordinaria rivoluzione, e l’anno dopo Mandela fu eletto presidente del Sudafrica: era la prima elezione democratica che vedeva vincitore un africano.

La sua lotta e il suo sacrificio sono ciò che il Mandela Day vuole ricordare; la sua spinta al cambiamento, la fiducia nel futuro e l’amore per l’altro sono invece quello che ogni giorno dobbiamo coltivare. Mentre lui era incarcerato, una delle preoccupazioni maggiori del Partito Nazionale era bandire dal Sudafrica le sue parole. Erano quelle a spaventare, perché dicevano cose scomode, disturbanti. E a loro dobbiamo sforzarci, ancora oggi, di tendere l’orecchio, perché provengono da voci flebili, smorzate, e, spesso, dimenticate.

Finché nel nostro mondo perdureranno povertà, ingiustizia e disuguaglianza, nessuno di noi potrà davvero riposare.

Forse, se Mandela potesse festeggiare con noi il suo giorno, ci ricorderebbe proprio questo: di non pensare di aver fatto il grosso del lavoro. Di non credere che il nostro mondo non possa essere migliorato, che non possiamo fare niente per gli altri, che sono troppo poveri, troppo distanti, o semplicemente troppi, per noi. Sarebbe, io credo, ancora il piccolo Rolihlahla che va a tirare i rami più bassi degli alberi per non farli dormire. Per attaccare briga, per scuoterci dal nostro dormiveglia.

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