Sapore di sala

Il musical, che passione - parte 2

Nel '75 irrompe The Rocky Horror Picture Show. Piccolo spunto casuale, che diventa culto-trash-sessual-liberatorio, aggressivo manifesto unisex post sessantottino. Un'opera diversa e geniale, che fa testo è del 1978, Grease, che riporta il genere all'attenzione del pubblico largo e giovane, anche se si tratta di una rivisitazione. La vicenda vive in un'atmosfera da anni Cinquanta. John Travolta vi immette gli opportuni movimenti pelvici utili per aggiornare il prodotto e per il marketing. Un'indicazione: nello scorrere dei titoli finali, in caratteri piccoli, veloci, quasi nascosti, si legge Gene Kelly. A tanti anni di distanza da quei titoli dell'età dell'oro, se volevi far ballare e cantare, era ancora a lui, eroe inventore, che ti dovevi rivolgere.

All That Jazz ('79) è un altro titolo rilevante, per evoluzione. Bob Fosse rappresenta qualcosa di diverso nel genere, l'erotismo e il nudo e una coreografia ambigua e "fisica", con figure sessuali quasi esplicite. Lui che aveva ballato il tip tap nei famosi musical degli anni cinquanta. Fosse è un altro che ha indicato una svolta, un precursore. Saranno famosi ('80) è un altro primo motore. Probabilmente il film che ha generato più produzioni. Trattasi di didattica buona: i giovani che frequentano l'accademia artistica e otterranno in proporzione al talento. Il film di Alan Parker è un prodotto perfetto: modelli, canzoni (la famosa "Fame") , ballo, giuria, parabole, e ha generato la serie televisiva, con gli stessi personaggi del film, di enorme successo. Molti film di culto giovanile hanno quella derivazione, come Flashdance e Save the Last Dance.

Con Fratello, dove sei? (2000) ho qualcosa di personale. Gli ho attribuito 5 stelle 21 anni dopo Apocalypse Now, dunque un film perfetto, anomalo, ma musical, con alcune delle più belle canzoni country americane che accompagnano una storia piena di metafore da uno spunto eroico, l'Odissea, con interpreti impeccabili. Il tutto gestito dal genio dei Coen.

Un film che porta estetica frenetica è Moulin Rouge (2001) di Baz Luhrmann: un clip infinito che rimescola immagini, deliri e musica in un contenitore che gira continuamente su sé stesso. Media di durata delle sequenze, tre secondi. Certo, c'è Nicole Kidman. Nel 2002 Rob Marshall dirige Chicago. Storia antica riletta, con una colonna quasi memorabile. Con due grandi attrici, Zellweger e Zeta-Jones che sembrano uscite da una vecchia scuola, scuola di "allora", perché fanno tutto alla perfezione, recitazione, canto e ballo.

Un benemerito tentativo di recupero della grande qualità lo si deve al postmoderno De-Lovely (2004), una biografia di Cole Porter. Il regista Winkler ricrea alla perfezione l'epoca di Porter, gli anni tra i Venti e i Cinquanta. Ma l'uomo che ha composto alcune delle più belle canzoni del Novecento, ha trovato tiepida accoglienza nel cinema di oggi, dove la qualità, e la storia, anche le più nobili, non bastano come richiamo per le generazioni che vanno al cinema.

E poi The Producers (2006), grande sceneggiatura e musiche adeguate. Deriva da un classico comico Per favore non toccate le vecchiette di Mel Brooks, dunque parte bene. E tanti mix fra vecchio e nuovo, con Uma che fa un po' Marilyn e un po' RitaIo non sono qui, di Todd Haynes, del 2007, appartiene alla famiglia, allargata, degli evocatori di mito. In questo caso Bob Dylan, rappresentato attraverso simboli e facce diverse, un film che si prende a cuore la poetica sociale piuttosto che le canzoni, comunque un "episodio" sofisticato e intelligente.

Arriva poi Mamma mia!, eredità degli antenati musicali: nonni, padri, figli, tutta gente felice. E poco è cambiato, il pensiero è lo stesso, adulto e adolescente, il gesto è quello dei cartoni, i sentimenti sono fasulli come i colori del web. Com'è fasullo il cinema più bello. E niente di politicamente corretto. Cinque stelle.

Ma prima di Annettte c’è tempo ancora per un grande titolo: La La Land, che ha fatto onore al genere e al cinema. Uno dei film o forse il film più bello e felice delle ultime stagioni. Agli Academy Award del 2017 ha ottenuto 11 nomination e 6 Oscar: regia (Chazelle), attrice protagonista (Emma Stone), fotografia (Linus Sandgren), scenografia (David Wasco), colonna sonora e canzone originale, cioè City of Stars (Hurwitz). Emma Stone è un’autentica pietra preziosa. È padrona di tutto il film, con a fianco un partner, Ryan Gosling, anche lui all’altezza.

I due volteggiano secondo la Hollywood classica, quella degli anni ’50, il momento del cinema più grande e bello di sempre. La scelta del regista Chazelle è opportuna e benemerita: non spezza la sequenza secondo lo stile di Baz Luhrmann, per intenderci, con stacchi frenetici sulle mani, sui piedi, sulle espressioni; ma inquadra l’insieme del numero, senza mai staccare. E così i due bastano a sé stessi, non ci sono trucchi, faticano e sono bravi. Certo, con sono Cyd Charisse e Gene Kelly, ma hanno carisma e simpatia. La trama è un po’ quella che descriveva Sinatra: i due si incontrano si innamorano, si lasciano per poi fare pace cantando e ballando. Solo che qui il finale è diverso e dolcemente struggente.

Gli autori non si sottraggono al richiamo di quella magia può essere Cantando sotto la pioggia, e completano l’opera con inserti di musica, linguaggio e soluzioni del cinema di adesso. L’Academy, ribadisco, se n’è accorta.

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