Spesso incombe, sulla relazione tra persone comuni e la scienza, un grande pregiudizio di fondo, ovvero l’idea che la scienza sia serva della tecnologia e che quest’ultima sia sempre contrapposta alla Natura (la maiuscola non è casuale). Il fenomeno è stato ampiamente studiato dalla psicologia sociale e dalla comunicazione della scienza e lo abbiamo toccato con mano negli ultimi anni con la questione dei vaccini: ciò che è prodotto in laboratorio suscita maggiori diffidenze di ciò che nasce “spontaneamente” in natura oppure viene estratto da prodotti naturali.
La chimica è probabilmente uno dei settori dove questa dicotomia percettiva è maggiormente presente: ce lo dice il linguaggio comune, che riflette i nostri pregiudizi inconsapevoli, e che utilizza espressioni come “senza sostanze chimiche aggiunte” per certificare un prodotto sano, specie nel campo alimentare e cosmetico.
Per chi ha una qualche infarinatura di conoscenze scientifiche, dovrebbe essere chiaro che si tratta di un paradosso: tutto è chimica, anche il prodotto naturale
L’esempio più immediato è quello degli aromi alimentari, come la vaniglia, che a volte vengono sostituiti dal loro analogo sintetico, prodotto in laboratorio. Dal punto di vista chimico, però, la vanillina sintetica e l’aroma di vaniglia estratto dal baccello sono praticamente indistinguibili (e lo sono anche per il nostro organismo).
Di questa idiosincrasia tra naturale e artificiale racconta da anni Beatrice Mautino, biotecnologa, ex ricercatrice e divulgatrice scientifica di successo, con un canale Instagram con 195.000 followers sotto il nickname di "Divagatrice".
Sì, perché i cosmetici sono prodotti altamente tecnologici, come hanno imparato gli e le affezionat* follower di Beatrice che, dopo aver scritto di organismi geneticamente modificati e agricoltura (insieme a Dario Bressanini in Contro Natura) e dopo precedenti viaggi nel mondo del trucco e parrucco (Il trucco c’è e si vede e La scienza nascosta nei cosmetici per Chiarelettere), si concentra questa volta sul mito del “naturale vs artificiale”.
C’è una ragione per cui raccomando caldamente i suoi libri anche a coloro che non amano la scienza o non utilizzano cosmetici: sono un perfetto esempio di ciò che noi comunicatori e giornalisti scientifici cerchiamo di far capire ai nostri lettori, ovvero che la scienza, quando esce dai laboratori per entrare nel mondo reale, è presente dappertutto e a tutti in livelli e che ignorarla significa rinunciare a uno strumento di scelta consapevole.
La troviamo nella messa a punto del mascara come nella valutazione di tossicità di un pesticida. E viene sfruttata anche da coloro che, per ragioni di marketing, la tirano per la giacchetta cercando di trasformarla in una app che valuta i nostri acquisti o le nostre abitudini alimentari (se siete curiosi, vi basterà leggere il primo capitolo di È naturale bellezza dedicato alla app del momento, Yuka, e alla sua pretesa di dare bollini salutistici al nostro armadietto dei cosmetici e alla nostra dispensa).
Il libro, quindi, è una specie di manuale (non esplicito, perché evita accuratamente i toni da maestrina tipici di altri testi analoghi) di come funziona la scienza applicata: ci spiega come lavorano le istituzioni di controllo o come vengono applicate le tecniche di valutazione della tossicità ma ci racconta anche tante storie che fanno riflettere sui meccanismi distorsivi che a volte sono intrinseci nella produzione della conoscenza scientifica e a volte sono a valle.
Ci parla di greenwashing (i 5000 dollari annui spesi da un colosso petrolifero per una riserva di farfalle blu), di sperimentazione animale (la bava di lumaca, ingrediente di costose creme antiage, può essere vegetarian friendly?), di mode che derivano da filoni di successo della ricerca di base (il microbioma e i batteri buoni) per divertirci e interessarci ma, alla fine, fa di noi lettori dei cittadini e dei consumatori più consapevoli e liberi di scegliere sulla base di fatti verificati.
Che poi è ciò che fa (o dovrebbe fare) la scienza.
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