Per quanto maestosi, ridondanti nei loro iniziali buoni propositi, i progetti umani sono destinati spesso a un rapido sgretolamento
Succede a volte che inventariamo la nostra vita in oggetti. Quisquilie ingombranti che si fanno carico di significati eccessivi. Accumulatori di polvere che poi trovano il loro massimo grido di identità quando impilati in scatoloni per un trasloco. A Zagabria c’è un museo definito “sociologico” dove sono esposti gli oggetti ricordo che hanno simboleggiato relazioni amorose. Bambole gonfiabili, cartoni della pizza, lumini, buste e lampade.
Reperti che rendono se non altro tangibile l’inafferrabilità di un sentimento.
Da questa premessa, Fabrizio Bonetto in Museo di un amore infranto (Accento), muovendosi dall’universale al particolare, ci offre il ritratto di un amore andato in frantumi. Veronica e Giacomo hanno costruito il loro sentimento orizzontalmente. Attraendosi come magneti prima, per inseguirsi senza troppa convinzione poi. Tentando di decifrare i reciproci codici amorosi che se nei primi anni affascinavano nella loro inconciliabilità, ora risultano respingenti nella loro differenza.
A Zagabria c’è un museo che accoglie i ricordi di chi ha un amore fallito di cui disfarsi. È il Museum of Broken Relationship.
Veronica è imprevedibile, sognatrice, senza itinerari. Giacomo invece affidabile, ripetitivo, preciso come un foglio di Excel. Dopo vent’anni insieme il loro rapporto viene minato dall’intrusione di una terza persona, Giovanni, collega e amante di Veronica.
Il libro inizia così dalla fine.
Catapultati nel salotto di casa, in medias res, ascoltiamo Veronica che spiattella in faccia a Giacomo il suo tradimento. L’uomo abituato a pianificare i secondi, creare mappe mentali e non, allergico a qualsiasi tipo di imprevisto, si ritrova spiazzato. La scena sembra quasi uscita da un dramma di Pinter. Un triangolo amoroso dove lo spettro ingombrante del terzo è sempre presente, anche nell’inconsistenza di una personalità scarna. Alternando il punto di vista di marito e moglie, Bonetto si muove nel tempo, dal tradimento del presente, ai turning point del passato, delineando un amore che sembra vacillare sin dai suoi entusiastici inizi. Mette in atto la dissezione di un matrimonio, elevando piccoli episodi di vita quotidiana, portatori di non detti premonitori.
I matrimoni saltano perché due persone, che vengono da due culture diverse, anche solo per sfumature, sono costrette a convivere e a dover mediare di continuo i loro comportamenti, dimenticare quello che hanno imparato a casa dei genitori per creare nuove abitudini condivise
E dire che i tentativi di salvataggio sono stati molteplici. Durante la pandemia Veronica e Giacomo inventano il Vaso delle Cose Belle, un contenitore dove, insieme ai figli Matteo e Rebecca, poter raccogliere su cartoncini un momento bello accaduto durante la giornata. Un mucchio di felicità che cresce giorno dopo giorno e tiene lontana la minaccia dell’apatia. Ma è proprio in quei salvataggi disperati, mascherati da iniziative caricaturali, che si legge tra le righe una mancanza. Vuoti di affetto, di stima, di amore riempiti da progettualità, costruzioni e sovrastrutture. Involucri che sopravvivono indefessi all’assenza dei contenuti che dovrebbero ospitare.
Come resistono gli oggetti nel Museo delle relazioni interrotte, di cui Bonetto ci offre un inventario tutt’altro che asettico, interrompendo i capitoli con intermezzi, quasi a riempire gli intervalli fra un atto e l'altro. Un decalogo di incontri, errori, nostalgie che vanno a comporre il ventaglio dell’amore in tutte le sue pieghe.
Caro Museo, gli amori finiscono anche se i matrimoni continuano, se ne fregano di quali siano i nostri vincoli, le nostre convenzioni, loro finiscono nelle assenze, in un piatto trovato pronto e mangiato in silenzio senza nemmeno pronunciare un grazie. Gli amori annegano nel veleno per formiche sparso a difesa dell’indifendibile
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