L’Africa non esiste
È una delle prime – talvolta, l’unica – espressioni in latino che si imparano a scuola: si guarda una cartina dell’Impero romano e si legge «hic sunt leones». Si vede un confine, il deserto, e poi una mappa sfumata, confusa, dove si promettono meraviglie e pericoli, un mondo selvaggio e misterioso. E chissà che non fosse meglio così, quando l’Africa era solo una sconfinata distesa incerta in cui era difficile avventurarsi, in cui resistevano zone inesplorate, foreste, savane, deserti, altipiani. La storia recente la conosciamo tutti, tra colonizzazione, tratta degli schiavi, guerre civili, e conosciamo (preferiremmo di no) anche le nostre responsabilità, tra la cattiva distribuzione delle risorse e l’ancor più nefasta ingerenza negli affari locali.
Ma nella Giornata mondiale dell’Africa, per quanto necessario sia pensare a come l’Occidente – civilizzato, per carità – abbia flagellato il continente, cerchiamo di raccogliere una delle meraviglie di cui più di sovente ci si dimentica. Non la Storia quindi, ma le storie, l’enorme ricchezza di popoli, tradizioni, persone che l’Africa abitano, vivono e raccontano, pur nelle contraddizioni di un continente tanto vasto e complesso. È per questo che si è scelto quest’esergo: perché ci si renda conto che l’Africa non esiste. Dall’«hic sunt leones» a oggi, l’Africa, con presunzione e freddezza, l’abbiamo creata noi.
La cosa più vicina al sogno, nel mondo della veglia, è la notte in una grande città, dove tutti sono sconosciuti per tutti, o la notte in Africa
C’è sempre un misto di fascino e rispetto quando si parla di Africa. Fascino perché ci piace pensare al mal d’Africa, ad animali esotici da fotografare in un safari, agli altipiani innevati del Kenya. Ci piace dirci che le persone, lì, hanno un contatto diverso con il mondo, più vero, genuino, e amiamo far loro visita e tornare per dire che i bambini lottano per andare a scuola mentre qui fanno il contrario. Fascino proprio perché c’è un lì e un qui. E rispetto perché anche a qualcosa che, di fatto, non esiste – ci permettiamo questo gioco – siamo riusciti a far del male. L’Africa ci interroga sempre, ma ancora oggi, nonostante le informazioni martellanti e le pubblicità sociali in tivù, resta un concetto troppo vago perché ce ne responsabilizziamo davvero.
Eppure, se qualcuno, come noi, ha voglia di entrare un po’ più addentro a una terra enorme che va oltre le nostre capacità, per farla esistere non come vogliamo noi, ma per com’è, nella nostra breve – drammaticamente breve – bibliografia c’è un punto d’inizio. Perché qui sono raccontate storie, di popoli, terre, individui, storie di persone che sono un puntino microscopico che sta sotto il grande nome «Africa». Puntini che, come un big bang, esplodono e prendono corpo perché l’Africa cominci a esistere come ogni luogo di questo mondo, come tanti tasselli diversi, autonomi, indipendenti, liberi – di sbagliare, di seguire vicoli ciechi, di tornare indietro, di andare avanti, di scegliere.
Le storie che si raccolgono arrivano dalle voci di chi ha vissuto, in un modo o nell’altro, l’Africa senza idealizzarla. Di chi l’ha abitata o di chi ne è stato soverchiato, non importa: ciò che è importante è che raccontino di un nuovo modo di prendersi cura, o di sentirsi responsabili. Un modo che ha a che fare con la comprensione, con l’ammissione dei propri sbagli, con il lasciare spazio a una libertà diversa da quella che conosciamo. Un modo per niente facile, a ben guardare.
Un romanzo d’avventura, di formazione, di scoperta, che racconta un mondo alle soglie della sua definitiva trasformazione, dove si intrecciano favole, leggende, cruda realtà, poesia, amore. Il protagonista, Yusuf, sballottato in una città cui non appartiene, troverà rifugio solo nel giardino paradisiaco della casa dello zio.
Ryszard Kapuscinski si cala nel continente africano e se ne lascia sommergere, rifuggendo tappe obbligate, stereotipi e luoghi comuni. Va ad abitare nelle case dei sobborghi più poveri, brulicanti di scarafaggi e schiacciate dal caldo, si ammala di malaria cerebrale; rischia la morte per mano di un guerriero.
1993. A Mogbwemo, il piccolo villaggio in cui vive il dodicenne Ishmael, la guerra che insanguina la zona del paese più ricca di miniere di diamante sembra appartenere a una nazione lontana e sconosciuta. Di tanto in tanto nel villaggio giungono dei profughi che narrano di questa tragedia, ma per Ishmael e i suoi amici quei profughi esagerano sicuramente.
Le cicogne sono immortali è il romanzo più politico di Mabanckou, quello in cui l’universo famigliare si allarga rapidamente fino a diventare un affresco del colonialismo, della decolonizzazione e dei vicoli ciechi del continente africano, di cui il Congo è una potente e dolorosa metafora.
Lei è Hirut, figlia di Fasil e Getey, una ragazzina spaurita in balia di un sistema patriarcale che la vuole schiava. Ma quando i venti di guerra contro gli invasori italiani cominciano a infuriare sulle alture, Hirut, figlia di Fasil e Getey, diventa la temuta guardiana del Re Ombra: come le sue sorelle d'Etiopia ora è un soldato, che non ha piú alcun timore di ciò che gli uomini possono fare a donne come lei.
"Un'indagine illuminante sull'Africa deve ancora avere luogo, e non finge di accadere neanche nelle pagine di questo libro, che si limita a raccogliere qualche seme fecondo abbandonato sull'aia dell'esistenza africana nel suo complesso. Spero che da questi semi nasca una nuova stirpe di esploratori per la corsa alla necessaria Età della Comprensione Universale, ispirata dall'Africa." (Wole Soyinka)
Vissuta fino al 1931 in una fattoria dentro una piantagione di caffè sugli altipiani del Ngong, Karen Blixen ha descritto con una limpidezza senza pari il suo rapporto d'amore con l'Africa. Sovranamente digiuna di politica, ci ha dato il ritratto forse più bello del continente, della sua natura, dei suoi colori, dei suoi abitanti.
"Metà di un sole giallo" è la storia di molte Afriche che, con il loro bagaglio di felicità e dolore, di generosità e crudeltà, di amore e gelosia, vengono travolte dalla piena della storia quando nel 1967 la proclamazione d'indipendenza dalla Nigeria della Repubblica del Biafra sfocia in una tragica guerra civile.
Frank Eloff fa il medico in un ospedale sudafricano dimenticato da tutti, in un tempo sospeso e sempre in attesa di qualcosa. La novità irrompe nella sua vita con l'arrivo di Laurence Waters, un neolaureato pieno di iniziativa ed entusiasmo, che mina la tranquillità di un mondo sempre uguale a sé stesso.
A Manganelli, che nel 1970 la attraversa dalla Tanzania all’Egitto portandosi appresso l'immagine illusoria e il cliché cinematografico elaborati dal disagio europeo, l'Africa si rivela d'improvviso. Pachiderma planetario dove l'uomo è un'eccezione, affida la sua dignità non allo splendore di monumenti intimidatori, ma a simboli inconsapevoli, «intensamente araldici»: gli animali.
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