La corsa all'Oscar di Paolo Sorrentino 

Di Paolo Sorrentino si parla molto, eppure, a scorrere la sua ottima filmografia, si intercettano nove lungometraggi (se consideriamo “Loro” come unico) e due serie TV. Ha girato il proprio esordio nel 2001 ed è dunque un regista del nuovo millennio ma, nonostante ciò, è sovente sulla bocca di tutti, onnipresente e dibattuto.

Sorrentino che gira scene che sembrano non voler dire niente, Sorrentino che fa ridere ma spesso con amarezza, Sorrentino che punta più alla forma che al contenuto, Sorrentino che dà il meglio di sé solo quando c’è il suo alter ego Toni Servillo, Sorrentino che è spesso enfatico e metaforico e via così.

“Nel bene o nel male, purché se ne parli” si usa dire parafrasando l’immarcescibile Oscar Wilde. E di Sorrentino si parla sempre, benché lui sia un napoletano atipico, principalmente schivo, amante anzitutto della scrittura più che della regia, per sua stessa ammissione (è anche giunto terzo a uno Strega di pochi anni fa).

È indubbio che la presenza di Servillo in due terzi esatti dei suoi lungometraggi sia stata di grande aiuto al regista partenopeo (quanto un formidabile trampolino di lancio per l’attore) e, se consideriamo che delle tre pellicole rimanenti due sono state girate in lingua originale, il solo “L’amico di famiglia” – sua terza prova in ordine cronologico – vede l’assenza di Servillo tra i lavori italiani.

Detto che ad avviso di chi scrive i due film in lingua straniera (“This Must Be the Place” e “Youth – La giovinezza”) non sono le opere migliori dell’autore nonostante abbiano un cast all star, è proprio nella sintonia col suo alter ego che il regista sembra libero di dare sfogo a ciò che ha dentro. Tratteggia due personaggi inevitabili della politica italiana, ovvero Giulio Andreotti nel capolavoro “Il divo” e Silvio Berlusconi in “Loro”, con abile intelligenza narrativa, sufficiente a descrivere il lato oscuro dei soggetti scelti ma mai così tanto da renderli antipatici. A differenza di molti colleghi platealmente schierati politicamente, infatti, delinea i protagonisti usando tratti sarcastici e non ha la mano che trema, mai, proprio perché sorvola con leggerezza e si fa beffe del potere senza divenire pedante o banalmente accusatorio.

Tornando agli esordi, invece, si cimenta a portare in scena anzitutto due drammi – “L’uomo in più” e “Le conseguenze dell’amore” – che hanno in comune il senso dell’ineluttabile: un singolo gesto, una nota fuori dal pentagramma e la vita va in frantumi. Se non manca l’eleganza formale, specie nel secondo che affascina già molto, latita invece il sarcasmo amaro, sua tipica cifra temperamentale. Restano le due opere chiave: “La grande bellezza” e il recentissimo “È stata la mano di Dio”, che potrebbero essere accomunate dal premio Oscar come miglior film straniero. Il primo è un viaggio barocco, compiaciuto, inobliabile in una Roma erede di una moralità esteriore derivante dall’opulenza dei Romani, dallo splendore rinascimentale e dal potere papale, ma altresì erede di una amoralità interiore causata dalle invasioni barbariche e da quella dei lanzichenecchi. Magnifico. Il secondo è un testamento ante litteram, una lavanda cerebrale, una ridda di panni stesi a filo col selciato, come nei bassi del ventre di Napoli, doloroso e caloroso ritratto di una vita testata dal destino: quella del regista stesso. Delizioso.

Le serie TV – “The Young Pope” e “The New Pope” – estremizzano il suo gusto per l’inciso, per lo sberleffo, per l’improvvisa profondità riflessiva e per l’eleganza narrativa che lo contraddistingue, ma nulla aggiungono o tolgono al suo puro talento.

Felliniano, certamente, ma sempre più sorrentiniano, perché il grande regista – se tale – deve arrivare a quello: divenire aggettivo e pietra di paragone. Terminata la fase in cui ha dimostrato di saperci davvero fare con i dialoghi e i movimenti di macchina, forse è proprio col suo ultimo lavoro che ha raggiunto la maturità e sta diventando un gigante. Che vinca il suo secondo Oscar o meno.

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