Il 19 novembre Maremosso ha sconfinato nel Carcere di Opera e ha assistito ad un anticipazione di "Noi guerra! Le meraviglie del nulla" nell'ambito di Bookcity Milano.
Ecco un breve estratto dello spettacolo teatrale interpretato da detenuti ed ex detenuti della Compagnia Teatrale di Opera Liquida.
Qui le informazioni per prenotarsi per lo spettacolo.
“Noi guerra! Le meraviglie del nulla”,
Giovedì 16 dicembre, ore 20.00,
Teatro della Casa di Reclusione Milano Opera
Via Camporgnago 40, Milano
Per accedere alla Casa di Reclusione è necessario inviare una richiesta entro le ore 8.30 del 13 dicembre seguendo le istruzioni sul sito www.operaliquida.org
"Carcere" è una parola che sta dentro la nostra testa, dentro a un vocabolario che è in uso, anche se non certo quotidiano.
Ma chi vive davvero queste realtà preferisce parlare di “casa di reclusione” o "casa circondariale".
Questi sono i numeri della Casa Circondariale di Opera: 1.300 detenuti con pene definitive oltre i 5 anni, quasi 600 Agenti di Polizia Penitenziaria, 1 teatro, 14 laboratori, 2 palestre, 2 biblioteche, 4 luoghi per il culto, 1 campo sportivo (al momento non agibile per via della costruzione di un nuovo padiglione per altri 400 altri posti letto) (fonte: Giustizia.it) Opera è la più grande realtà carceraria italiana. (fonte: Wikipedia).
Costruita nel 1987, questa struttura ha assunto un ruolo di primo piano nel panorama penitenziario e non solo per i numeri.
Opera si è infatti sempre distinta per il modo di affrontare la carcerazione, per le attività e i percorsi intrapresi al suo interno, per il sistema ospedaliero e per l’attenzione verso le “attività trattamentali quali le attività scolastiche, lavorative, di formazione professionale, culturali, artistiche e sportive e verso i temi della famiglia e della genitorialità”. (fonte: Giustizia.it). Insomma una struttura all’avanguardia. Opera è anche il sito penitenziario con il maggior numero di detenuti al "carcere duro", il famigerato 41-bis per reati legati alla criminalità organizzata, i cosiddetti reati di mafia. Insomma il carcere di Opera è un unicum. Da qualche anno al comando di questa realtà c’è Silvio Di Gregorio - una lunghissima carriera all’interno del panorama carcerario italiano - da molti considerato un riformatore, un direttore "illuminato".
Buongiorno, Direttore. Cominciamo col raccontare qualcosa a proposito di questo luogo di cui lei è direttore da quattro anni. Se dovesse condensare il senso di questa istituzione a chi non ne abbia mai sentito parlare, come la racconterebbe?
La racconterei con l'immagine che si vede entrando, quella dell'Ultima Cena di Leonardo da Vinci: un’immagine di riscatto, la sintesi di quello che dovrebbe essere il carcere oggi. Nell’opera si vede infatti Gesù nel momento in cui annuncia la presenza tra i suoi discepoli di un traditore, Giuda. Ecco noi siamo lo Stato che come Gesù non ha paura di mischiarsi, di stare a tavola con i detenuti, cioè con coloro che hanno violato le norme. Intorno a quel tavolo ci sono persone di ogni sorta, perché tutti devono poter accedere, a una condizione però, che ognuno porti il ‘possibile’. Non ci si può sedere gratis, tutti, agenti, educatori, poliziotti ma anche i detenuti, devono portare ciò che gli è possibile perché è l'unione di questi possibili che fa la differenza. Così si opera il cambiamento, così si riesce a ottenere quello che il singolo non potrebbe fare. Questo è quello che facciamo qui ad Opera e questo è il motivo per il quale l'abbiamo voluta.
Oggi il carcere viene visto da molti, anche se non da tutti, come una specie di discarica sociale, quando c'è un problema ‘fuori’ si prende la persona e la si porta in carcere, dopodiché la società civile se ne disinteressa. Non per niente i vecchi istituti penitenziari erano al centro le città, come San Vittore a Milano, mentre oggi i nuovi edifici vengono costruiti nelle periferie, e sempre in quelle più degradate...
E c’è anche un altro parallelismo interessante: l’opera di Leonardo era stata voluta da Ludovico il Moro per lasciare un ricordo positivo di sé alla città, così anche noi vogliamo lasciare un ricordo positivo con una restituzione fatta però di persone, persone che sono state allontanate dalla società ma che possono rientrare, portando il loro contributo, divenendo utili "al progresso e al benessere materiale e spirituale del Paese", come dice la nostra Costituzione.
L’immagine dell’Ultima Cena è quindi un simbolo ma anche uno stimolo, perché è dalla relazione che nasce il cambiamento, è attraverso la relazione e l'influenza positiva che si riscopre la persona e la si aiuta a riscoprire la propria umanità. E in fondo il nostro lavoro è proprio quello di capire se il cambiamento che ha operato o sta cercando di operare il detenuto è un cambiamento reale, e questo lo vediamo perché lo sperimentiamo nel quotidiano, a tavola appunto, in una relazione che è naturale, istintiva.
C’è ancora una cosa che vorrei sottolineare, nell’Ultima Cena i commensali sono solo da una parte, rivolti verso chi guarda e questo rappresenta il nostro invito alla comunità esterna. Il riscatto è possibile infatti soltanto laddove la comunità esterna è pronta ad accoglierlo ma ovviamente questa possibilità di riscatto deve essere una possibilità vera. È chiaro che non è possibile cancellare l’errore e quindi il peso, la colpa, perché chi l’ha commesso lo porterà sempre con sé. Ma questo è il senso vero della pena, che è qualcosa di interiore, non sono certo le sbarre.
All'interno del carcere ci sono delle persone, persone che sicuramente hanno commesso dei crimini e nei confronti dei quali la giustizia deve intervenire, ma nel momento in cui è intervenuta poi si deve mettere un punto. Da lì deve iniziare un'altra storia, un percorso che può essere di perdizione o di redenzione, e sta a noi fare questa differenza.
Potremmo usare l'aggettivo "poroso" per descrivere un modello di carcere in cui ci sia reciprocità fra le esperienze vissute dentro e quelle vissute fuori, tra carcere e cittadinanza?
Certamente. Il muro di cinta è un paradosso, da una parte è la collettività lo chiede, per l’esigenza di erigere un muro che separi idealmente il male dal bene, ma nel momento in cui comincia a esserci questo incontro, questa relazione, il muro di cinta diventa un ostacolo, una barriera al fatto che questa persona possa tornare all'interno della collettività. Chi viene da fuori sa che quelli che incontra non sono più, o non sono solo, assassini, violentatori ladri, ma persone con una propria ricchezza, una propria anima e un proprio progetto di vita.
Sconfinando tra carcere e città
Presso il teatro della Casa di Reclusione Milano Opera, il 19 novembre alle ore 18.00 si è tenuto l’evento “Sconfinando tra carcere e città, Opera Liquida con laFeltrinelli.it”. La compagnia teatrale diretta da Ivana Trettel ha presentato estratti dello spettacolo “Noi Guerra! Le meraviglie del nulla” con la compagnia composta da detenuti ed ex detenuti. Il debutto, atteso da marzo 2020, avrà luogo il 16 dicembre nel teatro del carcere. Per partecipare è necessario inviare una richiesta entro le ore 8.00 del 16 novembre alla mail: prenotazionistabileinopera@gmail.com seguendo le istruzioni sul sito www.operaliquida.org.
Sappiamo che a Opera sono presenti molte realtà di carattere culturale. Quanto sono importanti queste attività in un percorso di riscatto e consapevolezza? Quali semi sono germogliati in seno alla comunità dei detenuti? E quanti?
Molti e molto importanti, perché il racconto di sé deve essere guidato, altrimenti potrebbe alimentare addirittura un fenomeno inverso, perché bisogna tenere a mente che, nel momento in cui si lascia una persona da sola a raccontare ad altri, nelle stesse condizioni, colpevole magari degli stessi reati, il metodo di valutazione potrebbe diventare un metro negativo, cioè quanto più sono importante nella violazione delle norme tanto più divento rispettabile. Da qui nasce allora l'importanza della relazione, del legame con il fuori che, attraverso i volontari e i professionisti, introduce elementi nuovi con i quali contrastare questa scala di valori sbagliata. Opera Liquida da 13 anni è presente con un’attività teatrale nel carcere di Opera e grazie al progetto “Per Aspera ad Astra” ha avviato laboratori di formazione professionale per il teatro, i costumisti, i tecnici audio luci e gli scenografi. I copioni degli spettacoli sono costruiti con gli scritti dei detenuti che nel gruppo discutono di temi sociali importanti e nella riflessione collettiva prendono distanza dal loro passato. Evoluzione di questo processo è il progetto “Stai all’occhio!” per la prevenzione dei comportamenti a rischio nei giovani. Il Gruppo della Trasgressione mette in scena da anni una particolare rielaborazione del mito di Sisifo, basata solo su un canovaccio sul quale poi i detenuti rielaborano la propria vita, una vita nella quale magari hanno voluto ricchezza, soldi, potere e ora, a causa di questo, sono magari costretti “all'eternità del carcere”, cioè all'ergastolo. Ma attraverso il teatro, attraverso questa messa in scena appunto, guardando dentro di sé, è possibile interrompere questa maledizione e recuperare passaggi centrali della storia personale. E poi vorrei ricordare il gruppo di poesia che esiste da oltre vent'anni. È un gruppo di detenuti che scelgono di condividere le proprie emozioni e scriverle, se vogliono. La partecipazione è rivolta a tutti, indipendentemente dalla preparazione o percorso di studi. C’è una poesia che voglio leggervi, una poesia che mi ha colpito tantissimo perché riassume esattamente il cambiamento di cui parlavo. L'ha scritta un detenuto che frequenta questo gruppo assiduamente e che non ha completato neanche la terza media, si chiama II bivio:
D'un tratto il mio avviso arrossì,
il cuore a dismisura colpivo allo sterno
dove il battito tambureggiava un'ansia preoccupante.
Scelsi il facile, lasciando il difficile,
e mi ritrovai prigioniero di una vita non mia.
Dopo decenni mi accorsi che la fatica della scelta avrebbe più premiato il difficile.
Come un viaggio a ritroso
donerei l'anima per ritrovarmi in piedi, paonazzo
al posto del cuore un tamburo, davanti alla scelta due strade, due destini.
Piango, sceglierei il modo di vivere più difficile.
Oggi mi ritrovo colpito dalle corde di una chitarra che suona le melodie della rivalsa.
Ecco questo è quello che può produrre la relazione tra persone.
Direttore, tra sconfinamenti e relazioni, ha voglia di consigliarci qualche libro? Non solo libri che raccontino la realtà carceraria, ma libri che sono stati importanti per lei.
Ci sono moltissimi libri sul carcere ma i più interessanti per me sono i libri capaci di far ragionare sul concetto di giustizia, intesa come ideale. Perché bisogna ricordare che la giustizia è una cosa diversa dal diritto e dalla verità processuale. Soprattutto è importante riflettere su quale scelta ha compiuto lo Stato nell'amministrare questa giustizia. Lo Stato italiano infatti ha compiuto una scelta di civiltà giuridica, mettendo prima i diritti e poi la raccolta dei fatti, dicendo in pratica: "La legge è fatta per l'uomo e non l'uomo per la Legge'" E poi occorre ragionare anche sull’idea, sul concetto di sentenza, questa infatti non può restituire, non restituisce il dovuto, a una parte invece che a un'altra. Da una vicenda processuale tutti escono sconfitti perché c'è stata una violazione del patto sociale e questo è un fatto gravissimo. Il reato è una sconfitta, significa che la legge ha fallito, l'istituzione-famiglia ha fallito, l'istituzione-scuola ha fallito, perché una persona ha commesso quello che non doveva commettere.
Noi siamo a Milano e allora vorrei ricordare il cardinale Martini che qui ha operato e che su questi temi ha scritto tantissimo, Sulla giustizia nel 1999, Non è giustizia. La colpa, il carcere e la parola di Dio e La domanda di giustizia con Zagrebelsky, entrambi del 2003. Certamente sono dei libri che varrebbe la pena leggere perché sono uno stimolo a ragionare sul senso vero e profondo di quella che tutti invochiamo come giustizia e che bisognerebbe essere molto prudenti nell’amministrare. Nell'irrogare le sanzioni infatti bisogna rispettare non solo un principio di ragionevolezza ma soprattutto, come diceva anche Obama, di proporzionalità e bilanciamento degli interessi. Così le sanzioni, che non dovrebbero colpire sempre e solo nel patrimonio, ma rivolgersi piuttosto a ciò che la persona cercava di conseguire attraverso quel reato. Questo sarebbe molto più utile e produttivo per la collettività e per la persona stessa.
Continuando a ragionare sulla costruzione di relazioni, i percorsi di rielaborazione e la consapevolezza, quanti sono i detenuti che qui a Opera intraprendono un percorso di studi e lo portano a termine?
Questa è una casa di reclusione dove i detenuti rimangono mediamente dieci o quindici anni e siccome hanno molto tempo è facile che intraprendano studi. È un fenomeno in crescita e per questo collaboriamo con l’Università Statale, la Bocconi e con l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Ci sono circa settanta detenuti iscritti al momento ma puntiamo ai cento e anche più, se possibile. Infatti stiamo anche lavorando per allestire un collegamento stabile internet in fibra ottica, in modo da dare ai detenuti le stesse possibilità degli studenti ‘fuori’. E naturalmente quando diciamo le stesse possibilità vuol dire che i detenuti devono essere in condizioni di parità, cioè con gli stessi diritti, ma senza sconti, quindi con un programma da rispettare, voti e scadenze. Soprattutto invitiamo le persone a costruirsi un futuro migliorandosi ogni giorno, che non vuol dire essere i migliori, perché altrimenti mi costruisco una scala di valori, che mi porta magari anche al vertice, ma che mi sostiene solo nella misura in cui io recito quella parte e quindi non sono libero, dipendo da quelle persone. Ecco noi cerchiamo di fare questo con i detenuti ma anche con il personale, un fenomeno che, per citare una teoria nel campo della sociologia del lavoro, va sotto il nome di toyotismo, da Toyota, l’industria che per prima lo ha utilizzato nel proprio ciclo di produzione. Significa che quando succede qualcosa non si va a cercare il colpevole ma la ragione per la quale è stato commesso quel determinato errore, cioè si studia come intervenire per modificare i comportamenti che lo hanno generato in modo che non succeda più, esattamente quello che si fa qui.
E in questa direzione vi voglio raccontare ancora una cosa: qui a Opera abbiamo ragionato molto sul fatto che se vogliamo migliorarci, tutti dobbiamo darci da fare, così è nato il pozzo delle idee un progetto per dare la possibilità di contribuire alla vita del carcere non solo con il proprio lavoro ma anche con le proprie idee. Tutti, volontari, agenti, detenuti, potranno lasciare il proprio contributo. Le idee verranno poi esaminate da una commissione e se sarà possibile la migliore idea verrà realizzata e, oltre al riconoscimento, diverso a seconda che si tratti appunto di detenuti, volontari o agenti, avrà anche il nome di chi l’ha proposta. Dovrà essere naturalmente una cosa seria, meditata. È un percorso lungo, è da più di tre anni che ci lavoriamo, ma stiamo andando avanti volutamente piano perché non vogliamo che sia una cosa calata dall'alto. Abbiamo dovuto per prima cosa recuperare i soldi e poi anche costruirlo, cosa che è stata fatta dai detenuti insieme agli scout. Nel progetto che ha vinto c'è un arco, che simboleggia ovviamente il riscatto e rinascita, due panchine e un pannello. Mi piacerebbe che su questo ci fossero delle persone stilizzate, come quelle disegnate dai bambini, con la testa a forma di lampadina, la lampadina delle idee appunto. Tutte insieme poi queste figure dovrebbero portare dell'acqua che è simbolo di vita, verso le città e il mondo. Questo per me rappresenta l'essenza di quello che facciamo qui, cioè rendere il carcere qualcosa di utile per tutti, per i detenuti e per la collettività.
Come dice Recalcati nel suo: Telemaco non si sbagliava, esiste un’eredità che ognuno di noi deve raccogliere e deve dimostrare di essere degno, mettendola a frutto, non solo naturalmente da un punto di vista economico. Ecco, io raccolgo quello che mi è stato consegnato e che consegnerò alla generazione futura, con un 'quid pluris' che appunto è il frutto del mio impegno e del mio lavoro.
Grazie, Direttore Di Gregorio, per il suo sconfinamento assieme a noi!
E c’è qualcuno che ci crede e lo fa davvero, tutti i giorni. Incontro al confine, tra carcere e teatro con Ivana Trettel, Direttrice Artistica di Opera Liquida
Opera, come il teatro, la danza e tutto ciò che si sforza di produrre bellezza, Liquida, come l’acqua, una sostanza fluida, che non ha forma, capace di attraversare i muri e i confini, anche quelli del carcere, “non conosce barriere, il liquido le attraversa” (operaliquida.org).
Ivana Trettel, laurea al DAMS di Bologna, un percorso di ricerca che affonda le sue radici nell’antropologia teatrale, da più di dieci anni cerca di dare corpo e forma, sudore e consistenza emotiva, a un’idea visionaria, quella di unire due mondi apparentemente distanti fra loro fatti, uno di regole e costrizione, e l’altro di ricerca, di libertà espressiva e creativa. Terra di confine la sua, incarnazione perfetta di ogni tipo di sconfinamento. Opera Liquida nasce da una sua idea all’interno della Casa di Reclusione di Milano Opera.
Dal 2009 sono state sette le produzioni andate in scena. Ma non ci sono solo gli spettacoli, Opera Liquida è portatrice di molti progetti che adottano il teatro come “strumento straordinario di evoluzione per un individuo recluso, cui viene dato un mezzo di comunicazione potente per trasmettere all'esterno il valore, la creatività e tutto ciò che di prezioso possiede in quanto essere umano”. Opera Liquida è quindi laboratorio teatrale e drammaturgico e di formazione professionale sui mestieri del teatro (costumisti, tecnici audio luci e scenografi) ma non solo questo, l’associazione è partner anche di Bambinisenzasbarre, un progetto nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile per il sostegno alla genitorialità reclusa attraverso la prassi teatrale, che coinvolge anche le carceri di Bollate e San Vittore, sempre a Milano. È promotrice di Stai all’occhio!, una serie di incontri rivolti ai ragazzi delle scuole secondarie per affrontare i temi della legalità e dei comportamenti a rischio, condotti e portati avanti grazie al lavoro dei protagonisti di Opera Liquida capaci di mettersi a nudo, e non solo in scena, al servizio delle generazioni future, senza sovraesporsi.
Opera Liquida è quindi una vera e propria compagnia teatrale ma anche molto di più, uno spazio di bellezza aperto sul carcere e sul mondo, i cui componenti sono sia detenuti sia ex detenuti che, terminata la loro reclusione, decidono di continuare questo percorso. Da qui prende avvio una messa ‘in opera’ di un carcere con una funzione non più, non solo, punitiva ma riabilitativa, fatta di corpo e di parole. Ivana Trettel è la protagonista di tutto questo e per questo l’abbiamo incontrata.
“L’idea di Sconfinando mi sembra molto interessante, in questo momento storico c'è molto bisogno di cultura, ora più che mai”. Ci accoglie così la Dottoressa Trettel in uno dei tanti orrendi, impersonali, incontri digitali a cui ci stiamo tutti abituando.
Opera Liquida in libreria
Sempre in occasione di #BCM21, grazie a Prima Effe, la costola di Librerie Feltrinelli dedicata al mondo della scuola, il 18 novembre, dalle ore 10 alle 12, presso laFeltrinelli Libri e Musica di piazza Duomo, alcuni membri di Opera Liquida saranno i protagonisti dell’incontro “Stai all'occhio!”, progetto di sensibilizzazione e prevenzione dei comportamenti a rischio nei giovani, rivolto agli studenti di due classi di istituti dì istruzione superiore della città.
Dottoressa Trettel come nasce Opera Liquida?
Opera Liquida nasce nel 2009, inizialmente come piccolo laboratorio teatrale. Ho collaborato un paio di anni con il Teatro Tascabile di Bergamo, per realizzare la mia tesi di laurea DAMS, approfondendo i miei studi sull'antropologia teatrale, con la guida di Renzo Vescovi, ispirandomi al lavoro di Eugenio Barba. Allieva di Claudio Meldolesi, antesignano del teatro in carcere, sono partita dal presupposto che il corpo del detenuto è un corpo negato e che il teatro poteva, è, un mezzo di comunicazione estremamente potente perché, a differenza di tutti gli altri mezzi espressivi, utilizza il corpo in presenza, un corpo che vibra, suda, respira e porta con sé tutto il suo vissuto. Il teatro è per me uno strumento ‘politico’ inteso come emanazione della polis. Da qui è nato dunque il mio rapporto, professionale e umano, con il gruppo di lavoro, insieme abbiamo cominciato da subito a pensare che potessimo elaborare dei temi sociali importanti, dando voce a persone che di solito non ne hanno.
Bene, siamo entrati subito in argomento dicendo che il corpo del detenuto è un corpo negato ma come funziona in concreto l’idea del teatro in carcere?
C’è una premessa importante da fare, lo 'strumento-teatro' non è per me uno strumento trattamentale in senso stretto, cioè possiamo osservare gli “effetti collaterali” positivi ma questa non è la prima direzione. Per me l’esigenza è il prodotto artistico, un prodotto dove le persone detenute però non devono sovraesporsi, da parte loro c’è già una grande generosità nel mettersi in scena e per questo io ho sempre invitato i miei attori detenuti a contenere la propria intimità e a traslarla invece in un contenuto, come il teatro appunto, che può essere allargato a chiunque.
Noi esseri umani viviamo tutti le stesse emozioni, paure, gioie e per questo, su questa base abbiamo fatto il primo spettacolo: I luoghi dell'altro. In quel periodo in Italia si discuteva molto del caso di Eluana Englaro, la stampa ne aveva fatto scempio, noi non l'abbiamo mai citata però ci siamo concentrati sul senso della vita in stato vegetativo. Abbiamo costruito allora uno spettacolo dentro una grande metafora che era l'Istituto Semplificatore, un luogo posto su un altro pianeta, dove per risparmiare sulle risorse trattamentali i detenuti venivano messi in coma farmacologico temporaneo. Ci avvicinava l’idea, il concetto, di ‘coma emotivo’ a cui il carcere spinge i detenuti.
Dal 2009 a oggi per fortuna ci sono state molte trasformazioni negli istituti di pena, come il trattamento avanzato e la sorveglianza dinamica e ho potuto osservare come queste nuove misure abbiano portato meno deresponsabilizzazione, meno infantilizzazione sulla persona detenuta, quindi un tessuto più fertile per fare in modo che le persone evolvano.
‘Infantilizzazione’, che cosa s’intende, con questo concetto, all’interno di un carcere?
Parlo di "infantilizzazione" perché se una persona non decide mai nulla di sé per molti anni, diventa come un bambino, non è più in grado di far fronte ai suoi impegni, alle sue responsabilità, perché se mai le hai mai le eserciti. Faccio un esempio, fino al 2014 il gruppo teatrale veniva prelevato dalle sezioni e sostanzialmente accompagnato alla sala prove. Con la sorveglianza dinamica invece le persone sanno che alle nove comincia il laboratorio e che devono recarsi lì, autonomamente. A noi che viviamo una vita normale sembra banale ma vi assicuro che non è così. Uno dei miei attori più straordinari, un ragazzo entrato in carcere a 18 anni e praticamente uscito adesso, non ha mai avuto vergogna di dire: "il carcere mi ha salvato la vita'" perché in carcere si è diplomato, si è iscritto all'università, poi ha cominciato a lavorare e ora è diventato capo reparto, una persona molto responsabile quindi, ma alle prime prove, quelle che facevamo fuori insieme con gli altri ex detenuti, faceva fatica ad arrivare puntuale, era come se tutta la libertà e tutto il movimento che aveva lo travolgessero.
Parliamo di Opera Liquida, chi sono gli autori delle opere che mettete in scena?
Le nostre produzioni nascono dagli scritti degli attori reclusi, anche i copioni li scriviamo noi. Così è stato per il primo spettacolo, I luoghi dell'altro” del 2009, al centro del quale come dicevo abbiamo messo il tema del testamento biologico. Poi Anime Cosmetiche del 2010, nel quale abbiamo affrontato la crisi economica e le paure. Nel 2012 “Le meccaniche dell’anima”, sul crash emotivo, nel 2016 invece siamo andati in scena con Undicesimo Comandamento - Uccidi chi non ti ama che oltre agli scritti delle persone recluse era in parte tratto dall’omonimo romanzo di Elena Mearini ma è stata un’anomalia, ci interessava parlare di violenza contro le donne e il fatto che fosse un gruppo di uomini a parlarne ci sembrava un corto circuito emotivo interessante.
Poi sono venuti gli altri spettacoli, tutti ideati e scritti all’interno della nostra Compagnia. Normalmente il laboratorio procede così: io introduco un tema (e fino adesso il gruppo non me l'ha mai bocciato!) e a fianco della formazione dell'attore parte il laboratorio drammaturgico, cioè io propongo delle suggestioni, film, libri, immagini, e gli attori iniziano a lavorare e chi vuole a scrivere. Alla fine io costruisco un montaggio drammaturgico, andando a inserire i testi prodotti.
Ma non c'è il rischio che con questi temi il detenuto metta magari troppo della propria vita personale, che la scrittura diventi una forma di 'espiazione'?
Può accadere, in Undicesimo comandamento: uccidi chi non ti ama per esempio, c'è una scena che parla di violenza domestica subita, scritta integralmente da un detenuto che però poi, dopo averci donato il testo, si è ritirato dal progetto. Io credo tuttavia che la scrittura creativa debba, possa essere anche presa di distanza, di analisi e che possa essere di aiuto in questo.
Quali sono stati poi i progetti di Opera Liquida e quali sono quelli futuri?
Nel 2015 c’è stato Non più i luoghi dell’altro che è andato in scena all’Elfo Puccini nell’ambito di Expo dei Teatri e poi Disequilibri Circensi, uno spettacolo sulle migrazioni del 2018, grazie al quale abbiamo vinto il Premio Enea Ellero per il Teatro Sociale Pancirolli. Abbiamo inoltre gestito per tre anni uno spazio al Parco Idroscalo, “IN Opera Liquida”, come sede della compagnia esterna e per l’organizzazione, in parte, del Festival di teatro e teatro e carcere, per pubblico misto di detenuti e civili “Prova a sollevarti dal suolo”, che nel 2014 ha donato una nuova sala teatrale alla città e che è proseguito fino al 2018, ospitando spettacoli teatrali di alto livello, fermato dalla pandemia. Eravamo anche pronti per il debutto di Noi guerra! Le meraviglie del nulla con la collaborazione straordinaria di Giovanni Anceschi (nel '59 Anceschi aveva realizzato le Tavole di possibilità liquide e incuriosito del nostro nome ci aveva intercettato). Ha quindi realizzato per noi Tavole di Possibilità liquide di grandi dimensioni, fulcro della drammaturgia scenica. I costumi, ispirati al deserto, all’arsura cui conduce la cattiveria, sono del fashion designer Salvatore Vignola e realizzati dai detenuti costumisti sotto la guida della modellista Silvia D’Errico con gli studenti degli Istituti Scolastici Olga Fiorini. Quando siamo rientrati a giugno 2020 le partiture fisiche di Noi guerra! erano da rifare perché tutte di contatto. In questo spettacolo, inoltre, gli ex detenuti avevano, hanno, un ruolo drammaturgico fondamentale, sono la cosiddetta 'redazione dell'odio', una redazione che dice alle persone cosa e chi odiare e solo ora sono potuti rientrare in carcere. Nel 2020 però, grazie alla volontà e visionarietà del nostro direttore, Silvio Di Gregorio, eravamo riusciti comunque a farne una performance via streaming durante Book City, una cosa incredibile!
Dal 2018 Opera Liquida fa anche parte di Per Aspera ad Astra una rete nazionale sostenuta da ACRI (Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio) e da undici fondazioni di origine bancaria, per noi Fondazione Cariplo, grazie alla quale abbiamo potuto rinforzare le nostre attività, anche attraverso i corsi di formazione professionale.
Il futuro prossimo vede Bookcity, il debutto nazionale di Noi guerra! Le meraviglie del nulla, per il prossimo 16 dicembre sempre nel teatro del carcere, e stiamo già lavorando alla nuova produzione, “Extravagare”, che tratteggia i percorsi di un uomo nuovo.
Vi aspettiamo a teatro!
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