Il verso giusto

Tristia V di Ovidio

Illustrazione di Asia Cipolloni, 2022, studentessa del Liceo Artistico Volta di Pavia

Illustrazione di Asia Cipolloni, 2022, studentessa del Liceo Artistico Volta di Pavia

Né tanto mi tormenta l’immancabile freddo,
il bianco gelo che riarde il suolo,
né la barbara lingua digiuna di latino
né che il getico suono vinca il greco,
quanto che d’ogni lato prema i confini Marte,
dal nemico ci salva un breve muro.
Ogni tanto c’è pace, di pace mai certezza.
L’armi ora soffre il luogo, ora paventa.

(Tristia V, 2b, 65-72)

 Sebbene in questa sponda si mischi il Greco al Geta,
di mal placati Geti hai prevalenza.
Dei Sarmati e dei Geti la grande maggioranza
a cavallo va e viene per le strade
e tra loro nessuno non ha faretra ed arco
e frecce lorde di vipereo fiele.
Aspra la voce, il volto truce, Marte in persona,
capelli e barba mai offerti a rasoio,
e destra presta a dare colpi col coltellaccio
che ogni barbaro porta stretto al fianco.

[...]

Se osservo il luogo, il luogo non ha niente d’amabile,
più triste non ce ne può essere al mondo;

se gli uomini, di questo nome degni ne hai pochi,

dei lupi sono ancora più feroci.

Non temono le leggi, la forza vince il giusto,

prono è il diritto alla guerresca spada.

(Tristia V, 7, 11-20; 43-48)

 

Traduzione di Nicola Gardini
Da Nicola Gardini, Con Ovidio, Garzanti 2017

Con Ovidio. La felicità di leggere un classico

Con lo stesso stile di Viva il latino, unendo fulminanti intuizioni critiche, nuove traduzioni e una ricostruzione appassionata della vita, Nicola Gardini ci accompagna alla scoperta di uno dei più grandi protagonisti della letteratura universale.

Il luogo che Ovidio definì gelido e triste oltre ogni dire, privo di alcunché di amabile, abitato da barbari più feroci dei lupi che parlavano una “barbara lingua digiuna di latino” era Tomis, la Costanza dell’odierna Romania. A confinarlo in quel posto inospitale fu l’imperatore Augusto nel 9 d.C.

Non si trattò di un vero e proprio esilio, poiché il poeta non fu privato delle sue proprietà e la sua famiglia non fu costretta a seguirlo. Fu però certamente una punizione terribile per il maggiore poeta romano dell’epoca, cacciato dall’Urbe a cinquantadue anni (era nato a Sulmona nel 43 a.C.) e al culmine della fama. A Roma non poté tornare mai più, e morì a Tomis nel 17 d.C.

Ma di quale colpa si era macchiato per meritare una simile condanna? È lo stesso Ovidio a spiegarlo nelle elegie che scrisse a Tomis (Tristia, “tristezze”): fu punito per aver scritto l’Ars amatoria e per avere involontariamente offeso l’imperatore assistendo a una scena proibita, di cui nulla volle mai rivelare. Ufficialmente furono i contenuti scabrosi e offensivi per la morale augustea contenuti nell’Ars amatoria, dunque, a condannare l’insuperabile maestro e teorico del gioco amoroso. Eppure, quest’opera risaliva a diversi anni prima. Nel 9 d.C., invece, Ovidio aveva da poco completato le Metamorfosi, in cui avrebbe dovuto celebrare l’avvento di Augusto. I miti cantati in quei quindici libri (Narciso, Medea, Fetonte, Filomela, Filèmone e Bàucide, Dafne…) trasmettevano, però, un messaggio tutt’altro che edificante, poiché rappresentavano un mondo talmente instabile da rischiare continuamente di piombare nel caos.

La stessa conclusione dell’opera, uno splendido discorso del filosofo Pitagora, è un inno alla vita che rinasce sempre, la dimostrazione che niente è immutabile: “Sposta/ pure qui quello e lì questo, la somma/ totale tiene. A mio parere cosa/ non c’è che possa a lungo mantenere/ la medesima immagine: dall’oro/ così passaste, stirpi umane, al ferro;/ così è cambiato tante volte il volto/ dei luoghi”. Insomma, “Tutto muta”: anche un impero. È dunque possibile che il poeta sia stato punito per le Metamorfosi? In un componimento dell’esilio Ovidio scrisse che Augusto non apprezzò il poema. E, aggiungiamo, lo dimostrò da imperatore.

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