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Alma di Federica Manzon

Nei giorni della Pasqua ortodossa, Alma è costretta a tornare nella sua città natale per raccogliere l’inaspettata eredità del padre. Un lascito che le chiede di fare i conti con il sangue, il passato, la Storia, i morti e le radici; «quel genere di cose che stanno sepolte sotto terra», quel genere di cose che lei ha scelto di abbandonare e tentato di dimenticare.

Alma
Alma Di Federica Manzon;

Federica Manzon scrive un romanzo dove l’identità, la memoria e la Storia – personale, familiare, dei Paesi – si cercano e si sfuggono continuamente, facendo di Trieste un punto di vista da cui guardare i nostri difficili tentativi di capire chi siamo e dov’è la nostra casa.

Sono anni che è scappata da Trieste, da quello che la città significa per lei – era ancora una ragazzina e da allora non ci è più tornata. L’irrequietezza che ha addosso e che rende sempre necessario un altrove è un retaggio paterno, da sradicati. Lui era uno slavo del di là, acrobata e cantastorie, perennemente sospeso sul confine; perso nei suoi mondi sognati, in una fratellanza possibile, in un continuo andirivieni senza esserci mai davvero in nome di ideali e di parole.

Certe sere Alma la sentiva piangere in camera sua. Andiamo a cercare papà, le diceva allora, ma sua madre scuoteva la testa, non avrebbe saputo dire dove fosse, da qualche parte a est, in qualche hotel Jugoslavija e forse nella villa di qualcuno. Si asciugava gli occhi con il bordo del lenzuolo che si striava di nero e le diceva che loro non sarebbero andate da nessuna parte, sarebbero rimaste in città perché lì papà sarebbe sempre tornato. E Alma a sette o a dieci anni sapeva che a richiamare suo padre era la città, non la famiglia. Se qualcuno un giorno le avesse detto che lei avrebbe messo il piede dentro quelle stesse impronte, l’avrebbe guardato con orrore.

Allo stesso modo del padre, anche lei dopo essere fuggita si è voltata ogni tanto – o più probabilmente sempre, come se quella lingua di terra fosse l’orizzonte di tutta una vita, la sua – ma ogni volta in un gesto orfico: mi volto perché ho bisogno di sapere che tu sei ancora tu, che nulla è mutato, né il dolore né il mistero che ti accompagna.
È una geografia che ha a che fare col tempo, quella dell’ultima fatica di Federica Manzon. E con la memoria, che poi è la culla dell’appartenenza e dell’identità: il racconto della lacerazione della Jugoslavia, con la sua violenza, è anche il racconto della lacerazione più personale di ogni componente della famiglia di Alma. Dal padre, che dopo la morte di Tito si è perduto nel crollo, a Vili, un bambino esiliato e spaesato portato a casa loro una notte della sua infanzia; diventato poi suo fratello, suo amico, il suo antagonista, il suo amore, il peggiore dei dolori. E sono proprio le parole, le lingue diverse, la necessità di distinguerle, ad aver avviato quella guerra fratricida nel Paese e tra loro, in una danza scura di incomunicabilità e incomprensioni.

In quel momento aveva realizzato che suo padre non le aveva raccontato niente di sé, solo qualche contorto frammento del Paese in cui era cresciuto e che ora non esisteva più, e lei sapeva cosa significa perdere un’occasione o anche una persona, ma non cosa significa perdere un Paese. Ecco la domanda che avrebbe dovuto fare a suo padre. Si era girata per cercarlo di nuovo, ma dalla stazione avevano chiamato il suo treno e lei aveva lasciato perdere. Quella era l’ultima volta che l’aveva visto.

Trieste non è lo sfondo delle frasi quanto uno specchio, un altro personaggio, il più importante: i suoi segreti sono i nostri segreti. Ed è bello e rassicurante, in conclusione, scoprire che possono essere sciolti. Sempre.

Si guardano. È così sexy, pensano. La solitudine e le incomprensioni, tutto l’amore e tutti quei morti, la Storia e la geografia da teppisti e la memoria che risale agli imperi e che vorrebbero seppellire in fondo a una dolina, quei loro teneri anni, e anche tutti quei pensieri sul caos delle loro vite lontane.

Con Alma (Feltrinelli) Federica Manzon conferma nuovamente la forza della sua penna, una scrittura fine capace di vertigini liriche e di una vividezza rara, che restituisce l’intensità dei temi del romanzo. Alma ci racconta due storie: una che attraversa le origini delle nostre domande, ci interroga su chi siamo e mette in mostra la forza fuori confine degli abbandoni (ma anche dei destini); l’altra che ci parla del conflitto dei Balcani, e lo fa con intelligenza, con l’onestà di riconoscere che poi, alla fine, le guerre si somigliano tutte – e che forse dovremmo imparare qualcosa, e che forse non abbiamo imparato niente.
E per fortuna che ci sono i libri, come questo, a ricordarcelo. E a chiederci di fare qualcosa, qualsiasi cosa, purché di più.

Vorrebbe raccontarle che da solo, in quell’appartamento di Belgrado senza elettricità, in quelle stanze dove era stato bambino, da solo e morto di paura nell’attesa che venissero a prenderlo, in quegli infiniti giorni di zinco aveva letto i libri di suo padre. Si era aggrappato ai libri, alla letteratura, come all’ultimo argine davanti alla violenza che stava facendo di loro qualcosa di mostruoso. Aveva letto e letto, e tutte le sciocchezze che gli scriveva suo padre – la libertà e la fratellanza, l’ideale – gli erano parse l’unica cosa capace di salvarli. Magari non avrebbero salvato lui, ma qualcuno, quelli che sarebbero venuti dopo, i nuovi bambini del suo popolo maledetto.

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Conosci l'autrice

Federica Manzon è un'autrice italiana. Collabora con l'organizzazione del festival letterario Pordenonelegge ed è redattrice di «Nuovi Argomenti». Tra i suoi titolo, Come si dice addio (Mondadori, 2008), Di fama e di sventura (Mondadori, 2011), libro finalista al premio Campiello, La nostalgia degli altri (Feltrinelli, 2017), Il bosco del confine (Aboca, 2020) e Alma (Feltrinelli, 2024).

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