Di cosa abbiamo bisogno, esattamente adesso?
Vantiamo una tregua a bocconi e praterie d’ansia lungo la schiena.
Domanda d’obbligo. Se poi come me si lavora in libreria, più che una domanda, è un rito irrefutabile.
Il filo a cui appendere i nostri consigli.
Di quali storie vogliamo nutrirci? Come irrigare la sospensione del letargo?
La risposta irrompe quasi in coro. Fuggire subito, preferibilmente lontano.
Verso duchesse incipriate e drammi d’amore.
Questo, puntualizziamolo subito, non è un romanzo al sole.
Questo è un libro necessario.
Perché, soprattutto oggi, la verità prude, la verità bussa, artigliando la porta che non riusciamo a tradire. La verità è nostra madre e nostra figlia. Ci allatta e ci chiede il seno.
Francesca Mannocchi questo lo sa. Giornalista di frontiera, così come amiamo definire coloro che non si difendono da ciò di cui scrivono.
Inviata in Medioriente, in Nord Africa, impregnata sottopelle di storie sempre scomode, questa volta ci consegna la sua.
«Un giorno, avevo i capelli corti e una disperazione appena sbocciata, pensai: nei miei trent'anni mi ammalerò. Così è stato». Un libro intenso e nudo, in cui la malattia diventa la lente attraverso cui guardare il mondo, per rivelare anche ciò che è inconfessabile.
Francesca è a Palermo per lavoro, quella missione raminga di raccogliere fatti dentro corpi distanti e trasformarli in articoli. Dentro una camera d’albergo, quella mattina si sveglia a metà. La sua porzione destra resta dormiente, impigliata negli strati di un sonno troppo vigile.
Rimane così, a galleggiare per ore tra gli spilli. Ma la pancia di tutto quel gorgo non è solo stanchezza.
C’è altro in serbo per lei. Altro che ha aspettato per mesi prima di avere un nome.
Francesca nasce ancora. Come madre e come malata. Ripartorita, forse, dal suo stesso parto.
La sua compagna di strada, emersa dopo la sua gravidanza, si chiama sclerosi multipla.
Patologia cronica, senza titoli di coda, recidiva, remittente, ingravescente, costellata di parole selvatiche, torve come frutti sconosciuti.
D’ora in poi Francesca sarà un arcipelago, un sottobosco di isolotti che non sempre sarà facile cucire l’uno all’altro. Le intenzioni potrebbero fallire, tradursi in gesti sghembi, in frasi sbavate, emanazioni di una carne imprecisa. Pensare “braccio” e dire “sedia”, impugnare una penna e sentirla cadere, nell’entropia di mosse che colano dai muscoli. La malattia insegna e Francesca apprende.
In quei corridoi smaltati di neon, assorbe il tempo dell’attesa. Impara a non scalciare, a non pretendere corsie preferenziali, perché quello di chi soffre è un limbo antigerarchico, dove solo l’urgenza detta il battere e il levare.
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E nel frattempo Pietro. Quel figlio sgorgato per disarcionarla, sovvertendo ogni lembo di ciò che era stata. Quel figlio per cui non smette di partire, quel figlio che a un mese e mezzo viene cullato dalla nonna, perché Francesca s’invola per l’Iraq. E, anche in questo caso, la ricetta non s’increspa, non modifica il registro. Anche qui siamo inchiodati alla schiettezza di un senso inevitabile.
Perché siamo di fronte a una donna che non abdica in virtù di una priorità biologica, che non si spoglia di sé stessa per diventare madre “a norma”.
«Queste comunità, lo imparerai presto caro Pietro, hanno regole inflessibili e se le discuti, se dissenti o polemizzi, la tua autonomia verrà scambiata per narcisismo e i tuoi desideri per vanità»
Perché non esiste un solo modo di essere madre, acconciato al protocollo e altamente digeribile.
La maternità, come la malattia, ci scalpella fino al nucleo. Scioglie l’eco di ciò che eravamo.
E ritrovarsi è una parabola sconnessa.
Ogni donna sa cosa ci si aspetta da lei quando smette i panni della semplice creatura.
E si fa creatrice. Sa che occorre recidere, potare tutte le estensioni che ossigenavano ogni altro appetito. La nostra fame di noi. Respirare per. Pensare a. Camminare come. Niente di più.
Ma non è così. E questo è un dono che riceviamo leggendo.
È per gli altri che vogliamo essere perfetti, bellissimi, desiderabili. È dagli altri che cerchiamo approvazione. È l’altro che ci vede e vedendoci ci racconta, è l’altro a suggerirci chi siamo. È lo sguardo, dunque, la gabbia?
Francesca vive e dimostra che la maternità non è sempre disposta a mostrarsi benevola, magari stremata ma condiscendente. Ci offre il suo disagio. Nitido, scabro e senza lamenti.
Per chi ha amato Perdersi di Lisa Genova, Cosa sognano i pesci rossi di Marco Venturino, o il prezioso Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag, questa lettura è una pietra essenziale.
Che ha il merito nudo di metterci in guardia.
Dal bianco dei danni che tendiamo a comprimere, in cui crediamo di annegare quando gli altri ci guardano, provando a schivare il loro riflesso.
Il bianco del possibile, che imbratta una tac, che ci inghiotte e ci sputa troppo in fretta.
Tutto questo è la sequenza di stanze in cui ci aggiriamo quando leggiamo Francesca, sentendoci esposti, scheggiati, incautamente corrotti dal nostro stesso muoverci.
La sottile coercizione a non incrinare le aspettative, a risultare all’altezza, a non svelare un corpo storto che ci proclami ammaccati, disfunzionali, come genitori o come pazienti.
Il suo linguaggio è lama e cristallo, un’arma liscia che scava il sangue e lo lascia parlare.
Del nostro nuotare senza essere pesci, scrutando le stelle come fossimo uccelli. Del nostro essere eternamente impreparati, sotto qualunque cielo. Sempre in cerca di una pagina in cui sentirci a casa.
Le recensioni della settimana
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I libri di Francesca Mannocchi
Di
| Einaudi, 2019Di
| Round Robin Editrice, 2018Di
| Mondadori, 2019Di
| Laterza, 2019Conosci l'autrice
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