La Storia maiuscola è una madre superstite.
Sopravvive e basta. Ai suoi minuscoli figli, all’immenso reticolo di tutti i suoi squarci.
Addirittura si nutre delle sue stesse ferite. Alcune le ostenta, altre le assorbe come un segreto.
Nel ventre di ogni taglio scivola il flusso degli esseri umani. Lo zolfo e l’ossigeno del loro destino.
Corpuscolare eppure infinito. Chi racconta fa (semplicemente) questo. Come un geologo.
Entra dentro un crepaccio. Si cala in quell’antro e ne inala il respiro.
Chi racconta sa che quel burrone sanguina. E a quel sangue assegna un volto.
E noi che leggiamo ci facciamo ogni volta stregare. Perché quelle vite, piccolissime e sepolte, riescono spesso a ospitare anche la nostra.
Isabel Allende ha saputo sempre donarci l’incantesimo. Sceglie un episodio, una voragine del tempo, e lo popola dei battiti dei suoi preziosi abitanti. Sarà così anche adesso?
Il vento conosce il mio nome (Feltrinelli) è romanzo di strappi.
Vicende distanti, per anni e latitudini, che riescono a vibrare dello stesso dolore. Dello stesso risveglio.
Si comincia da Samuel, scampato alla furia persecutoria che allagò l’Europa durante il secondo conflitto mondiale. La sua mite esistenza di bimbo viennese viene recisa in pochi mesi. Suo padre e sua madre vengono deportati e lui può salvarsi solo grazie alla fuga. Chiamata Kindertransport. Assieme ad altri minori parte per l’Inghilterra dove non sarà facile normalizzarsi.
Samuel resterà un orfano, scucito, sdentato, incapace di mordere i giorni e saperne sorridere. Rimbalzerà da una famiglia a un’altra prima di approdare a una coppia che sappia amarlo.
E poi si salva di nuovo, grazie alla musica. Fin da quando era un lattante è sempre stato un prodigio col suo violino. Dopo un lungo periodo senza suonare, senza vivere davvero, quell’istinto non si appanna e lo trainerà lontano, fino a New Orleans, dove il jazz detta il suo vangelo, una lingua nuova che lo farà pulsare.
Accanto alla sua scorre la storia di Leticia, ragazzina poverissima di El Salvador. Ha tanti fratelli, un altro in arrivo e cammina scalza per non imbrattare le sue uniche scarpe.
All’improvviso un’ulcera le trapassa la pancia. Leticia vomita rosso e deve essere operata. Giusto in tempo per sfuggire al massacro del suo villaggio. Il massacro di El Mozote.
L’11 dicembre 1981, il battaglione Atlacatl, addestrato dagli istruttori statunitensi della Cia ed ispirato a principi nazisti, invade il piccolo centro, colpevole soltanto di aver fornito alloggio ad alcuni guerriglieri comunisti in lotta contro la dittatura. Si compie una mattanza. Si spara a bruciapelo a cittadini inermi, si selezionano le donne più belle per violentarle e poi sgozzarle. Alle altre viene garantito solo il privilegio di morire. Con i bambini si opta per un’altra tattica. Li si lancia in aria e poi li si infilza con le baionette.
Si incenerisce un paese, senza che nessuno sappia, corrompendo i governi, insabbiando le voci. Abolendo anche il diritto di raccontare. Morti senza gas, senza filo spinato. E senza memoria.
Morti minori, che non meritano nemmeno una testimonianza.
Perché la Storia Madre alcune piaghe le porta sottopelle. Assieme a loro si dipana un altro binario. Quello di Selena, messicana che si batte per i nuovi migranti. Famiglie sudamericane spezzate al confine, mentre tentano di guadagnarsi il Nord.
E, come ci aveva narrato anche Jeanine Cummins ne Il sale della terra, smembrate contro il Muro eretto alla frontiera.
Il suo ultimo caso è quello di Anita, bambina accecata da un incidente e separata brutalmente da sua mamma Marisol. Privata quindi degli occhi e di una zolla di cuore. Ma in grado di sentire ben oltre il possibile.
Di accorgersi della sua “angela” che le orbita intorno con ali discrete.
Marisol ha scoperto informazioni proibite e si dissolve nel buco nero di un addio alla rinfusa. Così a Selena resta il dovere di cercarla, assieme a un avvocato con cui condividerà ben più della missione.
Come si intrecciano questi sentieri? Appurarlo spetta al prossimo passo. Spetta a voi.
Ogni filone risuona della stessa urgenza, della stessa necessità di rinascita.
Ogni personaggio è un reduce, con addosso la dignità della sua intima guerra.
E, come accade anche imbattendosi in altre scrittrici di quel quadrante di mondo, pensando ad Elsa Osorio, Marcela Serrano, Alejandra Costamagna o Aniela Rodriguez, ciascuna di quelle cicatrici riesce a risucchiarci.
Incide un solco in cui ci specchiamo, come anime in viaggio.
315 pagine dirette al nucleo, senza rivoli sbavati, senza tortuosità impreviste. 315 pagine che ho finito per ingoiare. Nel soffio di quel vento che, come chi racconta, conosce bene il nome di ognuno.
La cosa più bella era iniziare una storia, leggerne solo un pezzetto, continuare con la pagina di un’altra e poi cambiare ancora, mescolandole, così la storia cambiava ogni volta e il libro non finiva mai
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