Ho fatto della speranza l’anima del mio commercio. Fino a quando ci saranno disperati, sulla mia spiaggia arriveranno galline dalle uova d’oro. Galline tanto stupide da sognare giorni migliori sull’altra riva
È introdotta così la voce narrante di Lo scafista, esordio di Stéphanie Coste, pubblicato da La Nave di Teseo nella traduzione di Cettina Caliò e finalista del Premio Inge Feltrinelli 2024. Attraverso una scrittura che non fa sconti, aspra nella sua implacabile brutalità e a tratti struggente per degli inaspettati spiragli di tenerezza, vengono raccontati i meccanismi di profitto dietro ai viaggi dei migranti dal Nordafrica fino all’Italia, tra corruzione, ricatti e abbandoni.
Seyoum ha trent'anni ed è uno dei più importanti scafisti della costa libica. Sono dieci anni che fa questo terribile mestiere, da quando, nel 2005, la sua fuga dall'Eritrea si era arenata sulle spiagge del Mediterraneo.
Per affrontare uno dei temi d’attualità più divisivi della nostra epoca, Coste rinuncia al punto di vista delle vittime, preferisce insinuarsi in quello del carnefice: Seyoum, trentenne di origini eritree, scafista di potere sulle coste libiche. Per chi legge è inquietante, fino a diventare spaventoso, confrontarsi con un carattere tanto scevro da qualsiasi forma di empatia: donne, uomini e bambini sono semplice merce da impoverire con gravose richieste di denaro e poi da lasciare in mezzo al mare con la connivenza delle forze dell’ordine. Non c’è il minimo senso di colpa, il minimo interesse per la loro sorte, tutto il contrario: la speranza negli occhi di chi parte viene percepita come un’offesa personale, l’unico vero obiettivo è mettere all’angolo la concorrenza spietata di chi come lui si arricchisce sulla pelle degli altri e mantenere il controllo sull’area.
L’intreccio si muove tra la Libia del 2015 e la giovinezza di Seyoum, quando ancora viveva in Eritrea e la sua esistenza sembrava destinata a qualcosa di diverso. Anni di incertezze dovute alle tensioni sociali nella sua terra d’origine, da sempre gravata dalle pressioni dell’Etiopia; ma anche anni di devozione per il suo grande amore, Madiha. Una vita spazzata via dalla violenza che ha lacerato la sua famiglia e lo ha costretto a un lungo pellegrinaggio, lontano dalle persone e dai luoghi cari, fino al rapimento da parte dei somali. Il trauma pesa come un macigno, Seyoum lo sublima nella dipendenza da khat e alcol, nella vendetta contro gli innocenti, com’era lui all’epoca.
Qualcosa grida dentro di me. Tutta la follia annidata dentro quel nodo si è liberata per sempre. La violenza non mi lascerà più
Gli unici scampoli di umanità si manifestano con Ibrahim, adesso adolescente, accolto sotto la sua protezione quando era solo un ragazzino senza futuro, ma intenzionato a procurarsene uno. L’intesa tra loro è forse il rapporto più toccante e profondo tratteggiato da Costa, tra dialoghi in apparenza rudi e gesti sottili di stima reciproca.
Il passato, comunque, si ripresenta alla porta di Seyoum nel modo più doloroso e inaspettato possibile. Perché ci sono tasselli di verità a mancare nel puzzle della sua storia, anche se non ne è cosciente, può intravederli nello sguardo di Madiha:
Solo la luce verde dei suoi occhi è sopravvissuta al naufragio del suo corpo. Ma questa luce ha la durezza di uno smeraldo. E più spacco tutto quello che ho a portata di mano, la sedia, il tavolo, lo specchio, la teiera, a pugni, a calci, e meno mi spiego l’odio nei suoi occhi appassiti.
La prosa abrasiva e tagliente di Coste attraversa quella guerra interiore e il momento decisivo in cui subentra la necessità di fermarsi e prendere di petto la lacerazione, e lo fa intrecciando con disinvoltura percezioni del presente e ricordi fino al colpo di scena finale.
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