Un tempo per tutti i tempi, il peggio che permette di conoscere l’uomo per sempre
Così Edith Bruck descrive l’Olocausto in uno dei suoi romanzi.
È il 1944 quando viene prelevata dall’Ungheria e deportata nei campi tedeschi: ha tredici anni e il suo tempo si ferma sul vagone che la conduce ad Auschwitz, la madre che le intreccia i capelli per l’unica e ultima volta.
Nelle sue poesie più recenti, quella bambina ormai anziana non parla di ieri, ma di oggi: “Abbiamo già vissuto | tempi assassini”, scrive, e forse li stiamo nuovamente attraversando. Edith grida in Tempi le ragioni dell’amico Primo Levi: Auschwitz è intorno a noi, l'infezione serpeggia. Tempi diventa così il canto lacerato di una donna che denuncia, con voce d’infanzia, non solo la Shoah, ma la distruzione della terra tutta. È un canto per gli ultimi, per le creature umane e animali che hanno occhi, ma anche per quelle che non ne hanno e che sono fatte di foglie, acqua e cielo: “La verità | è di chi non parla; | dell’albero | del fiore | delle rovine | dell’acqua infetta | dell’aria tossica | della terra contaminata | dall’uomo | che stupra | la natura | come fosse il prolungamento | del suo pene.
C'è il tempo dell'infanzia e il tempo della vecchiaia, che si richiamano a vicenda; il tempo dei riti familiari e il tempo della solitudine; il tempo della memoria e il tempo del dialogo, specie con i morti; il tempo delle domande – a Dio, alla storia, a se stessa – e il tempo sospeso della scrittura, solcato da dubbi e incertezze, eppure capace di legare insieme, come un filo invisibile, le tessere di un'unica, ininterrotta meditazione sull'esistenza e sul destino che abbraccia l'intera vita letteraria dell'autrice.
Scrive Edith Bruck che l’uomo “non teme che | dove mette i piedi | non cresce più l’erba” e che la sua – la nostra? – Madre-Dio viene gasata in un perpetuo Auschwitz che oggi ha la forma dei cambiamenti climatici, della distruzione del cibo, della perdita della salute, dell’ascesa dei nuovi razzismi e della comparsa di nuovi impulsi di segregazione: “L’uomo-animale | più evoluto | è riuscito a peggiorare | non solo ciò | che lo alimenta | ma anche | il sapore della vita | e rovinare | il clima in rivolta”. “E l’onda nera | anche armata | contro ebrei e neri | è dietro al porta”. “L’antidoto contro l’odio”, conclude, è l’unico farmaco che l’umanità non è interessata a produrre.
Come scrisse Cyrulnik, psichiatra sopravvissuto all’Olocausto, le parole chiamano a sé le emozioni e così modificano la nostra realtà biologica. Nella biochimica del pensiero, la memoria ritorna inalterata, presente ed eterna. Di qui, la salvezza o la condanna della lingua.
Per Edith, che si trasferisce in Italia nel 1954, la lingua della testimonianza non è la lingua dei fatti testimoniati. Sulla parola italiana l’orrore inciampa, incapace di aggrapparsi (“nella lingua in cui scrivi | anche la tristezza è bella”) e l’italiano diventa così un ponte sull’abisso del “lutto eterno” che separa i reduci dalla società. Edith lo percorre come in sogno: nel suono arioso dell’italiano, la poetessa testimone tenta l’impresa del dire.
La riflessione sulla violenza e la bontà dell’umano ha la forma del dialogo con la madre. La bambina dalle trecce bionde recita poesie al posto delle preghiere e, giunta ad Auschwitz, vuol sapere perché la sua madre rotonda dagli occhi viola – la Madre-Cenere – crede ancora in Dio. “Cercavo quel Paradiso | che mi aveva promesso la mamma”, scrive, e a noi lettori quel Paradiso sembra essersi trasformato nella tensione verso il Paradiso, nella Madre-Poesia, nel sogno di una solidarietà tra esseri umani, necessaria e senza bandiere:
La condivisione fin da piccoli | è creatrice di pace | di un mondo nuovo | che non è mai esistito. | Potrebbe mai essere? | La responsabilità | di tutti i mali del mondo | è nostra
L’amore – per Edith l’amore romantico e passionale per il marito Nelo Risi, ma anche riverenza per la vita tutta – è l’unico assoluto bene che può sfidare l’assoluto male di cui Auschwitz è il modello: “L’estasi amorosa | reciproca | eterna | avrebbe potuto | essere l’antidoto | ad Auschwitz | l’assoluto | contro l’assoluto”.
Dalla lettura di questi versi, concitati e semplici come il pianto di un bambino, scaturisce la consapevolezza che non abbiamo ancora compreso la natura di Auschwitz. Auschwitz è un “tempo insicuro di sé”, che “si insinua nel cuori del mondo | con i suoi orfani di pace, di pane, di futuro”. “Eppure il sogno è semplice, mamma!”, dice Edith dalla treccia bionda: “Basterebbe che ai bambini | dessero del pane non armi”. “Almeno lo stretto necessario | ovunque per ogni creatura. | Se si vuol dirsi credenti | altroché far propaganda politica”. Una vita dignitosa per tutti, sogno impossibile di cui non ho pudore. Tutti mamma, indistintamente.
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