Che ne sarà della narrativa di viaggio, dei reportage, se il mondo che conosciamo è in pericolo? Non è la domanda che si pone Fabio Deotto in L’altro mondo, ma la mia di fronte al suo libro, e forse quella di ogni altro lettore. Prima della pandemia, l’autore ha deciso di tirarsi su le maniche della camicia - che mi pare indossi spesso, dal suo profilo Instagram - e di fare qualcosa per contrastare la sostanziale indifferenza di ognuno, degli Stati e delle organizzazioni di fronte all’emergenza climatica.
Deotto è un narratore, quindi può agire solo sul racconto, sul continuo discorso degli uomini tra gli uomini, sulla loro facoltà d’immaginare, su quell’autocoscienza che ci illude di avere il controllo, di possedere gli strumenti per continuare a vivere senza grandi cambiamenti, senza correre ai ripari, senza modificare il nostro stile di vita perché una qualche scoperta, magari, un qualche balzo tecnico ci salverà, un po’ come dovrebbe riscattarci la venuta “catastrofica” del figlio di Dio – dal greco καταστροφή, katá (“giù, in basso”) e stréphein (“girare, voltare”), con il significato di "capovolgimento”. In drammaturgia, ovviamente.
Negli ultimi dieci anni la crisi climatica è passata da essere un problema delle generazioni future a un'urgenza di quelle presenti. Eppure, nonostante il mondo in cui viviamo sia cambiato in modo inequivocabile e sia ormai lontano da quello in cui siamo cresciuti, noi continuiamo a vederlo inalterato.
Deotto ha preso aerei (le cui emissioni sono elevatissime) e percorso chilometri in auto; ha bevuto birra ghiacciata a latitudini caldissime, usufruito dell’aria condizionata, bevuto caffè esportato, si è ritratto persino in un supermercato, che un grande poeta come Simone Cattaneo, non a caso, chiamava «luogo di culto», al pari di chiese e moschee, dove l’abbondanza straripa sugli scaffali perché è un messaggio del “va tutto bene”; quanti, invece, gli sprechi? Quanto sfruttamento?
Deotto, così, ritraendosi come un individuo tra tanti, diverso solo nella presa di consapevolezza che lo ha spinto ad agire, senza alcuna verità in mano, si allontana dal pericolo del paternalismo, altrimenti avrebbe perso ogni autorità. Come ogni suo potenziale lettore, vive in un sistema neoliberista, nel quale sono palpabili le contraddizioni tra riduzione delle risorse del mondo e bisogni dell’uomo.
Del resto, abbiamo già oltrepassato la zona di sicurezza di molti dei nove processi biofisici (riportati da Danowski e De Castro in Esiste un mondo a venire?, pubblicato da Nottetempo), incluso quello delle emissioni, come scrive Deotto:
Oggi sappiamo che se anche interrompessimo tutte le emissioni di anidride carbonica nel giro di 24 ore, quella che abbiamo pompato nell’atmosfera negli ultimi due secoli continuerebbe a riscaldare il pianeta per decenni, e infine la temperatura si assesterebbe su un ipotetico plateau di 1,5 gradi al di sopra dei livelli preindustriali (oggi siamo all’1,2); ma questo è uno scenario altamente improbabile, dal momento che nonostante tutti gli appelli e gli allarmi finora si è fatto ben poco di concreto per flettere la curva della crescita di emissioni. Anche volendo essere ottimisti, non possiamo sperare di tenerci troppo al di sotto dei 2 gradi.
Se il mondo è già sulla via dello stravolgimento climatico, cosa possiamo fare? L’autore passa dalle Maldive alla Florida, dalla Svezia alla Franciacorta per far non solo vedere, ma anche immaginare gli effetti dei cambiamenti climatici sul mondo che conosciamo, o crediamo di conoscere, e per mettere in rassegna le possibili strategie. In generale, le risposte potrebbero essere centinaia ma, come avviene nell’amata Venezia (nel caso del MOSE), c’è chi vorrebbe una risposta “tecnica” e indefessa, dell’uomo contro la natura, e chi vorrebbe una risposta eterogenea, che metta in dialogo l’uomo e la natura, come avviene in alcune popolazioni indigene.
Il libro, con uno stile che alterna grado zero (giornalistico) e gradi successivi (nei tagli lirici, nelle introspezioni, nei passaggi autobiografici), accerchia il lettore, facendo un’operazione pedagogica di contestualizzazione: non si può più, dopo averlo attraversato, ignorare la realtà, la presenza dei cambiamenti climatici. Se ne esce con una sorta di frenesia catastrofica (col vecchio mantra “siamo apocalittici per avere torto”), per cui l’inattività è impossibile: chiudo senza condizionatore, senza ventilatore, dopo aver mangiato una fettina di pesce spada locale; preoccupandomi che il mio accordo, finora tacito, con ogni organizzazione, associazione, ente, azienda abbia alla base il rispetto per la questione ecologica; con l’ulteriore consapevolezza che il mondo non si assenta, siamo noi, sulla base dei nostri bisogni – non delle nostre urgenze – che lo vedremo tramontare. Ma sopravviverà.
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