Lo chiamavano Tennō, Imperatore. E per guadagnare un titolo simile in Giappone occorre aver compiuto qualcosa di indimenticabile.
25 anni fa a Setagaya, Tokyo, si spegneva Akira Kurosawa, uno dei più grandi registi di sempre.
Una carriera relativamente breve, considerati gli standard nipponici: 33 titoli, realizzati a partire dal 1943 e dal tardivo debutto con Sanshiro Sugata, racconto di una contrapposizione tra judo e jujitsu intrisa di filosofia.
Johnnie To, circa sessant’anni dopo, girerà uno dei suoi film migliori – Throw Down – proprio in omaggio a quel debutto. Ma è solo uno dei molti esempi del lascito ampio e duraturo di Kurosawa e di come anche una delle sue opere minori abbia ispirato registi lontani nello spazio e nel tempo.
Nell'antico Giappone un samurai e sua moglie si imbattono in un bandito: la donna subisce violenza e il marito trova la morte. La storia viene raccontata da ognuno dei protagonisti: la verità non ha una faccia sola. Il film ha avuto un rifacimento nel 1964.
Nato nel 1910, Akira Kurosawa è stato il primo regista giapponese a sfondare il muro del provincialismo occidentale e a influenzare, direttamente o indirettamente, il cinema europeo e americano. Poi arriverà il tardivo recupero di Ozu e Mizoguchi, ma fu Kurosawa ad aprire la via, benché il suo debutto come regista sia di molto successivo agli altri due giganti del cinema nipponico.
Quando nel 1950 Rashomon approda alla Mostra di Venezia, aggiudicandosi il Leone d’oro nello scetticismo generale, il dado è tratto, il Rubicone è attraversato. Quattro anni dopo il maestoso I sette samurai metterà d’accordo tutti sulla statura di un autore capace come nessun altro di lavorare sulla psicologia umana e al contempo orchestrare scene corali e scene d’azione spettacolari.
Un povero villaggio giapponese viene razziato da quaranta briganti, che rapiscono persino alcune donne e promettono di tornare per il raccolto. Disperato, il capovillaggio invia un giovane ad arruolare dei samurai. Grazie al loro aiuto, gli abitanti del villaggio impareranno a credere nelle loro forze, a difendersi dai loro nemici e dalle loro paure.
Giovani virgulti del cinema che diventeranno registi immortali, come Sergio Leone, Francis Ford Coppola o George Lucas, grazie a Kurosawa entrano in contatto con un universo sconosciuto e ne traggono ispirazione per generare cosmogonie immortali.
Lucas costruisce con Guerre stellari una saga sci-fi sullo scheletro della Fortezza nascosta, trasformando i samurai e le loro tecniche di combattimento nei Cavalieri Jedi che tutti conosciamo.
Sergio Leone decide di mettere un poncho addosso a Clint Eastwood e un fucile in braccio a Gian Maria Volonté per realizzare il primo spaghetti western, un remake della Sfida del samurai così fedele alla trama da suscitare l’ira di uno “scippato” Kurosawa (ma Leone voleva che il Giappone sapesse, fu la produzione a far finta di nulla).
Kurosawa si confronta con i film d'avventura e crea un grande capolavoro. Per la forza delle sue immagini La Fortezza nascosta è uno dei film più citati dai registi occidentali.
Giudicare il peso di Kurosawa in base ai suoi adepti occidentali significherebbe però sminuirne il valore intrinseco, oltre che aggravare lo stereotipo che vede in lui il regista nipponico più “da esportazione”, amato dalle nostre parti ma meno in patria. Pregiudizi antichi e ormai disattesi, specie dopo che legioni di cinefili hanno saccheggiato il cinema di Ozu, Mizoguchi o Naruse, ribaltando il concetto e spesso finendo per ridimensionare proprio Kurosawa rispetto alla purezza dei colleghi.
La verità è che, al di sopra di ogni moda e rovesciamento delle tendenze, il cinema di Kurosawa oggi come allora dona allo spettatore moniti etici immortali. Impareggiabile nel suo antropocentrismo, il regista dei Sette samurai e di Vivere non ha mai dimenticato di cosa sia capace – nel bene e nel male - la natura umana, soffermandosi su verità e menzogna, oppressi e oppressori, ma stando sempre a fianco di questi ultimi.
Tanto i samurai che si sacrificano con onore per difendere i contadini che un anziano impiegato che si è visto scorrere la vita davanti rappresentano figure tragiche ma ammirevoli, che hanno avuto l’ardire di anteporre la dignità ai bisogni individuali. Volti spesso incarnati dai suoi due attori feticcio: il prode Toshiro Mifune, guerriero e delinquente, avventuriero e seduttore, e il malinconico Takashi Shimura, il clown triste che non può fare a meno di suscitare lacrime di commozione.
Il vedovo Watanabe, capufficio della sezione civile, conduce da trent' anni la sua routine impiegatizia. Quando apprende di avere un cancro allo stomaco la sua esistenza subisce una svolta.
Gli straordinari capolavori degli anni ’50 e ’60 non sono però l’unico lascito di Kurosawa, che nell’ultima parte della sua carriera - dopo aver reinventato tragedie shakespeariane in Trono di sangue o Ran - ha saputo intraprendere nuove e coraggiose strade, guidato dalla consapevolezza post-atomica e dal dolore di un mondo offeso dalla cupidigia, dalla violenza e dall’industrializzazione coatta.
Sogni, oltre che uno straordinario viaggio nella capacità affabulatoria delle immagini, è anche un accorato appello in difesa della natura, così come Rapsodia in agosto e Madadayo – Il compleanno, ultimo e struggente lavoro del maestro.
Da qualunque angolazione lo si osservi e su qualunque periodo della sua carriera ci si soffermi, la lezione di Akira Kurosawa non rinuncia mai alla sua attualità. La saggezza non conosce la senescenza.
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