Se Mary Poppins avesse potuto misurarlo con il proprio metro magico, probabilmente vi avrebbe trovato scritto: "Claudio Abbado. Il miglior direttore di tutti i tempi". La cosa sorprendente è che sarebbe accaduto misurandolo da giovane, quando Arturo Toscanini lo incrociò e pronosticò per lui un grande futuro; misurandolo durante la sua maturità, quando passava dal podio dei Berliner Philharmoniker a quello della Scala, dalle opere al repertorio sinfonico, dalla complicità con i più grandi solisti viventi a quella con i compositori che lui stimava, dalla fondazione della Filarmonica della Scala a quella della European Union Youth Orchestra o della Gustav Mahler Orchestra; e lo avrebbe trovato scritto sul proprio metro anche misurandolo in tarda età, quando Abbado dedicava porzioni importanti del suo tempo così prezioso alle orchestre giovanili venezuelane o all'Orchestra Mozart, a Bologna, un'altra sua creatura, dove riunire i migliori talenti delle nuove generazioni.
A dirla tutta, anche oggi, a dieci anni dalla scomparsa, se si misurasse quello che ci ha lasciato, dal gigantesco corpus delle sue registrazioni al suo modo di fare musica, che generazioni di musicisti continuano a raccontare cercando di mantenerlo vivo, viene da pensare che, senza retorica, davvero Claudio Abbado sia stato il più grande di tutti.
Non è facile spiegare perché – come si spiegano la bellezza, l'intensità, la grazia? Ma ci sono almeno due tracce, due impronte del suo lavoro che, al di là della memoria di chi lo ha ascoltato in teatro o in sala da concerto, ritornano in ogni registrazione, in ogni video, e non importa che si tratti di un album passato alla storia della discografia o della ripresa di una prova con un'orchestra di ragazzi.
La prima è la gentilezza. Il sorriso. La gioia di fare musica. Uno direbbe: beh, certo, i musicisti amano il loro lavoro, è chiaro che sono felici. E invece no, perché lo sforzo, la difficoltà, la concentrazione, la responsabilità fanno sì che, d'accordo, gli interpreti spesso si divertano, ma raramente riescano a trasmettere un vero senso di leggerezza, di gioco, di ingenuità infantile; soprattutto se si tratta di direttori d'orchestra, in genere molto presi dal loro ruolo e dunque austeri, seriosi, temibili. Ecco, Abbado faceva musica con una letizia inarrivabile, con una grazia quasi divina, anche quando dirigeva pagine drammatiche o fosche o strazianti. Arrivava al cuore delle partiture, sempre, e ne svelava la bellezza rimanendone lui stesso incantato. Lo ascoltavi, ancora lo ascolti nelle registrazioni, e ti dicevi semplicemente: che gioia! Così che quando nacquero un po' scherzosamente gli Abbadiani Itineranti, un club di seguaci fedeli che si spostavano per ascoltarne più concerti possibili, fu facile capire che non si trattava semplicemente di fan: erano persone toccate dalla consapevolezza che, ascoltandolo dirigere, si accedeva a una vita superiore, sempre – a scriverlo fa un po' ridere, lo so, ma accadeva, accadeva davvero.
La seconda impronta, che in fondo rendeva possibile la prima, è quella della curiosità. Dello studio. Dell'approfondimento. Abbado dedicava a ogni progetto tutto il tempo necessario, non si tirava mai indietro, non si stufava di cercare, inseguire, perfezionare; e lo fece sino ai suoi ultimi giorni, senza stancarsi, senza mollare. Il che faceva la differenza. Perché le partiture sono insiemi di segni, di dettagli che comunicano tra loro seguendo una logica elastica, mutevole, a volte rigorosa e a volte incomprensibile, portata avanti lungo strutture ferree come in una pagina di Bach o tradita e ricomposta in continuazione come in una sinfonia di Mahler. E, per capire, per padroneggiare, per rendere giustizia a un brano, spremendone tutta la bellezza, bisogna abitarlo con la propria mente, smontarlo e rimontarlo, interrogarlo, farselo amico, come solo studiando e studiando è possibile fare. Poiché, poi, dietro a una partitura c'è sempre un compositore, lo studio non può che investire una molteplicità di strati, di idee, di filosofie, di tradizioni, di culture, che non si possono trascurare se si vuole davvero abbracciare una sinfonia, un'opera, un'ouverture. Abbado lo sapeva, vi si immergeva con la curiosità di un ragazzino e, tornando a galla, si trovava poi a suo agio con qualunque autore scegliesse di affrontare, da Beethoven a Verdi, da Mozart a Schumann, da Cajkovskij a Berg: si calava nei loro panni, nei loro pensieri, alzava la bacchetta e lasciava fiorire la musica, sorridendo a ogni pentagramma – forse non a caso era un competentissimo appassionato di botanica, un "giardiniere prestato alle note", come amava definirsi.
Oggi ci possiamo consolare con dischi e filmati, ma Abbado ci manca, c'è poco da fare. E rivolgergli un pensiero, in questo 19 gennaio, è una cosa dolce e bella e anche importante.
Di
| Bompiani, 2015Di
| Zecchini, 2015Di
| Curci, 2023Di
| Guanda, 2015Di
| Babalibri, 2007Di
| Carthusia, 2023Ti potrebbero interessare
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