Anniversari e ricorrenze

Dario Fo: la satira che non muore mai

Illustrazione di Simone Casu, 2021

Illustrazione di Simone Casu, 2021

La vita è una meravigliosa occasione fugace da acciuffare al volo tuffandosi dentro in allegra libertà.

A cinque anni dalla sua morte, è bene ricordare perché, nel 1997, Dario Fo venne insignito del premio Nobel per la letteratura.

Il commento degli accademici svedesi è un sunto esemplare di tutto ciò che Fo ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, per il panorama culturale italiano. Il drammaturgo e attore viene considerato «un autore satirico estremamente serio», il cui operato, «seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi».

L’intento satirico, dissacrante e sopra le righe, è il vero leitmotiv di tutta la produzione di Fo fin dagli albori, ben lungi dall’essere riconducibile al solo Mistero buffo, per cui è spesso ricordato.

Nato nella provincia di Varese, nei pressi del Lago Maggiore, Dario Fo cresce immerso nella satira: i suoi insegnanti sono i maestri soffiatori di vetro e i pescatori, che erano soliti raccontare favole paradossali e grottesche della tradizione orale dei “fabulatori”.

Nel 1940 lascia le sponde del lago per iscriversi all’Accademia di Brera; durante la guerra, Dario, chiamato sotto le armi nella Repubblica di Salò, riesce a fuggire e trascorre gli ultimi mesi prima della liberazione nascosto in un sottotetto. Ci racconta di questo periodo nel suo Il paese dei Mezeràt.

Per raggiungere il solaio c’è solo una scala a pioli; una volta lassù la dovrò ritirare e nasconderla nel sottotetto. Nessuno, nemmeno mia madre, sa di quel nascondiglio. Trascorsi più di un mese là dentro, senza mai uscire.

Gli anni di Brera sono quelli in cui si esercita nella fabulazione: i suoi racconti paradossali hanno un discreto successo fra gli altri studenti dell’Accademia. Per Dario questo è un periodo di letture di formazione, in cui Gramsci e Marx si alternano con i romanzieri americani e con le prime traduzioni di Brecht, Majakovskij, Lorca.

Nel clima del dopoguerra esplode una vera e propria rivoluzione teatrale – in particolar modo grazie alla nascita dei Teatri Stabili. Sarà in questo contesto che si svilupperà l’idea di “scena nazional-popolare”, terreno fertile per le prime sperimentazioni di Fo, che spesso e volentieri assisterà in piedi alle rappresentazioni, non potendosi permettere il biglietto.

Nell'estate del 1950 Dario si presenta all’attore Franco Parenti con un testo scritto da lui, la storia di Caino e Abele, in cui i due personaggi biblici sono visti come i nipotini di un Dio che palesemente preferisce il secondo al primo. L’impronta di Fo è nuova, popolare e paradossale: ogni parola è recitata con un movimento del corpo disarticolato ed elastico, utilizzando una voce che sa di padano, di antico e di inventato, un moderno e personalissimo recupero del grammelot. Il linguaggio e le logiche della narrativa standard vengono sovvertiti e da questo momento vengono gettate le basi per quello che sarà poi Mistero Buffo.

Ai critici devo molto. All’inizio no, se devo essere sincero. All’inizio a capirmi sono stati in due. Non dico due tanto per dire un numero. No, sono stati veramente due. Due, su una buona trentina.

Nel 1969 nasce, quindi, la “giullarata” più celebre di Dario Fo: rappresentata per la prima volta il 30 maggio 1969 all’Università Statale di Milano, il Mistero Buffo è un connubio ancora ineguagliato di sacro e profano, di aulico e popolare. Si tratta di una vera e propria lezione di storia della letteratura, composta da più brani che cambiavano seguendo l’andamento storico, estremamente stratificata e complessa. Alcuni sono più noti di altri (indimenticabile, per esempio, è Rosa fresca aulentissima), ma ognuno di essi è strutturato per proiettare satira sullo spettatore.

Fo si mette al servizio del pubblico per risvegliarne la coscienza, per stuzzicare una consapevolezza tanto politica quanto umana e lo fa grazie all’affabulazione; il suo punto di riferimento è il Medioevo, da lui considerato perfettamente compatibile con il mondo moderno. Ed è così che opera questo recupero della “cultura bassa” del villano, staccandosi solo apparentemente dalla letteratura “laureata”.

La trasformazione in giullare è completa: appropriatosi del linguaggio e della ritmica, Dario Fo rende accessibili a un vasto pubblico i misteri più astrusi e il successo è incredibile, mondiale.

Un uomo che non partecipa alla vita della comunità, che si estranea, è un morto che cammina.

Tornando a citare gli accademici svedesi, «se qualcuno merita l'epiteto di giullare nel vero significato della parola, questo è Dario Fo». L’opera poliedrica di Fo, saltando da riferimenti bassi a latinorum, dà una visione ampia della prospettiva storica del tempo, mettendone in luce gli abusi e le ingiustizie.

Come nella commedia dell’arte, le sue sono opere sempre aperte ad aggiunte innovative e modificazioni, che continuamente inducono gli attori all’improvvisazione, in modo tale che il pubblico ne viene coinvolto in maniera sorprendente. La sua è un’opera di eccezionale vitalità e portata artistiche.

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