“Come per tutti i grandi artisti longevi, non uno ma molti Montale ci guardano dalle sue raccolte poetiche”, scrive il critico letterario Pier Vincenzo Mengaldo nell’analizzare i temi della poetica montaliana, da Ossi di seppia a Le occasioni, da La bufera a Satura, delineando il ritratto di un “poeta terrestre e celeste insieme”, posto in una feconda compresenza di concretezza linguistica e astrazione metafisica.
Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è stato uno dei protagonisti più significativi del Novecento europeo e un’importantissima figura di riferimento per tutta la cultura italiana, dalla prima raccolta poetica del 1925, Ossi di seppia, al Premio Nobel della letteratura nel 1975. Nel 1929 assunse la direzione del Gabinetto Viesseux (preziosa istituzione culturale fiorentina), carica che mantenne fino al 1938, quando ne venne allontanato perché non iscritto al Partito fascista. Nel 1948 si trasferì a Milano, città nella quale avrebbe vissuto fino alla morte, lavorando anche come redattore del “Corriere della Sera”. Montale, inoltre, seppe riconoscere e promuovere autori al tempo misconosciuti (come Italo Svevo) portando avanti nel contempo una intensa attività di traduttore. Eliot, Pound, Kavafis, Melville, Shakespeare e Steinbeck sono alcuni degli autori la cui opera ha potuto beneficiare dell'acuta sensibilità linguistica del poeta, che contribuì senz'altro ad avvicinare un largo pubblico alle grandi letterature.
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| Mondadori, 2019Il 12 ottobre ricorreranno i 125 anni dalla nascita di Eugenio Montale: ripercorriamo i tratti essenziali della sua opera e del suo universo poetico, una delle espressioni più alte della cultura del Novecento, capace di interpretare in una forma originale ed efficacissima i problemi che travagliano l’uomo moderno. La visione montaliana della realtà si traduce in un messaggio poetico che rifiuta il lirismo fine a sé stesso e che innesta i legami con la tradizione lirica precedente in un tessuto lessicale nuovo e dominato dagli oggetti. Tra “pozzanghere/mezzo seccate” e “polverosi prati”, poesia e pensiero si fondono in un rapporto razionale con il mondo e i suoi detriti, quegli “ossi di seppia” impoetici e privi di orpelli sapientemente poggiati su una dizione scabra, aspra e antimusicale, manifesto del caos interiore dell’uomo.
da Ossi di seppia
Non chiederci la parola
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
La parola poetica, ridotta a “qualche storta sillaba e secca come un ramo” in Non chiederci la parola (1923), non è in grado di portare ordine nell’indecifrabile paralisi esistenziale e cosmica, quel “male di vivere” che si incista nella realtà attraverso immagini di tormento soffocato e affannoso, né può proporre messaggi positivi. Al tempo stesso, l’autore muove da un rassegnato rifiuto del dato sentimentale e recupera un rapporto più concreto con le cose, con l’idea ontologica della parola, offrendo al lettore un’immagine della condizione umana che è tra le più alte ed emblematiche espressioni della crisi contemporanea.
Dalla ricca e ragionata ricerca stilistica di ritmi dal taglio fortemente narrativo, deriva una poesia che insieme è anche una prosa irta di modi contrastanti, parlati, in cui l’aulico cozza con il prosaico, sintetizzando echi ed elementi della tradizione – a partire dall’eredità del plurilinguismo dantesco della Commedia – e ricercata sensibilità sintattica e lessicale.
La poesia di Montale, nell’esercitare un influsso capillare e durevole dal punto di vista della forma e del pensiero, diviene limpido insegnamento per tutta la tradizione poetica successiva.
E dei “molti Montale che ci guardano”, il poeta Giovanni Raboni sintetizza suggestivamente l’immensa lezione che scaturisce, trasmigrando da un Montale a un altro: “[…] con i grandi poeti, compresi quelli che siamo soliti annoverare o relegare fra i “classici”, i conti non sono mai veramente chiusi; che la loro immagine, se sappiamo guardarla con sufficiente attenzione, non può che apparirci in movimento e quasi in bilico sull’onda di un perenne e inquietante divenire.”
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